RINNOVABILI, IL 50 PER CENTO DEI CITTADINI UE POTREBBE DIVENTARE PRODUTTORE DI ENERGIA

ROMA, 26.09.16 – La metà della popolazione dell’Unione europea, circa 264 milioni di persone, potrebbe produrre la propria elettricità autonomamente e da fonti rinnovabili entro il 2050, soddisfacendo così il 45 per cento della domanda comunitaria di energia. È quanto dimostra il report scientifico “The Potential for Energy Citizens in the European Union”, redatto dall’istituto di ricerca ambientale CE Delft per conto di Greenpeace, Federazione Europea per le Energie Rinnovabili (EREF), Friends of the Earth Europe e REScoop.eu.

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Il rapporto – lanciato alla vigilia del tour “Accendiamo il sole” della nave Rainbow Warrior di Greenpeace, che partirà tra una settimana dalla Puglia – evidenzia il potenziale degli energy citizens in Europa. Per energy citizens si intendono gli individui o le famiglie che producono energia o gestiscono in maniera flessibile, individuale o collettiva, la propria domanda di energia. Una definizione valida anche per enti pubblici come città e edifici comunali, scuole, ospedali o edifici di proprietà del governo, così come le piccole e medie imprese con meno di 50 dipendenti.

«I cittadini che autoproducono almeno parte dell’energia che consumano saranno la figura chiave delle politiche energetiche dei prossimi anni», commenta Luca Iacoboni, responsabile della campagna Clima ed Energia di Greenpeace Italia. «Togliendo il monopolio della produzione di energia alle grandi aziende che continuano a puntare su fonti fossili come carbone, petrolio e gas, sarà possibile definire un modello più democratico, in cui ciascuno contribuisce a produrre energia: è l’unica possibilità per un futuro 100 per cento rinnovabile».

Il rapporto fornisce anche i dati per ciascuno Stato membro dell’Unione. In Italia gli energy citizens potrebbero produrre il 34 per cento dell’elettricità entro il 2050, grazie al contributo di oltre 26 milioni di persone. In particolare il 37 per cento di tale produzione potrebbe arrivare da impianti domestici, e la stessa percentuale da cooperative energetiche, il 25 per cento sarebbe il contributo delle piccole e medie imprese, mentre appena l’1 per cento proverrebbe da enti pubblici.

«Il potenziale dell’autoconsumo e della generazione distribuita in Italia è alto, e questo studio lo dimostra», continua Iacoboni. «Purtroppo il governo, con provvedimenti specifici come la riforma della tariffa elettrica, sta mettendo in ginocchio il settore delle energie rinnovabili, e in particolare quello dei piccoli produttori domestici. Matteo Renzi ha dichiarato che entro fine mandato il 50 per cento dell’elettricità nazionale sarà prodotta da fonti rinnovabili e, se non vuole che questo rimanga solo un annuncio, la direzione da prendere è chiara: incentivare tutti i cittadini a produrre la propria energia», conclude.

Greenpeace, Federazione Europea per le Energie Rinnovabili (EREF), Friends of the Earth Europe e REScoop.eu chiedono inoltre un sistema di norme che protegga, supporti e promuova l’autoproduzione e l‘autoconsumo a livello nazionale e comunitario, con specifico riferimento alla imminente discussione sulla Direttiva comunitaria per le energie rinnovabili e l’iniziativa di Market Design.

Leggi il report (in inglese) e scarica le infografiche con i dati sull’Italia

Leggi il riassunto del report (in italiano)

ALLIGATORE  = ALLIGATOR

Vietato dire «hai sbagliato»

Ci sono quelle fatte subito, poi ci sono quelle differite nel tempo «Se anche ieri avessi fatto così..», poi ancora ci sono quelle velate.
Esse sono le “critiche” fatte al bambino.

Criticare vuol dire “valutare qualcosa”, solo che spesso le usiamo per valutare “in negativo” l’operato del bambino stesso.

Sembra più forte di noi.
Sottolineiamo che non ha finito tutti i compiti (ma non diciamo nulla di quelli che invece ha fatto); lo richiamiamo perché ha sbagliato il risultato (ma non lo elogiamo se la procedura era corretta); lo puniamo perché non ha ancora imparato a memoria la poesia (senza dire nulla sul impegno di averci almeno provato e poi ci sentiamo in colpa con noi stessi).
Ed alla fine che cosa otteniamo?
Un bambino che avrebbe potuto essere incentivato nei compiti che già sapeva fare, non li fa più. Nelle operazioni di cui ne aveva appreso la procedura, non ne farà altre.
Esservi arrabbiati per la poesia, non ha poi avuto il risultato di avergliela fatta imparare a memoria ma ha solo aumento il vostro senso di colpa post-rimprovero.

Insomma, nel bambino, c’è sempre qualcosa che non va.

Fate ora questa simulazione mentale, e rispondete.
Tra 10 esercizi fatti, cui 9 sbagliati, cosa potrebbe essere più utile dire:
Risp. 1 «Ne hai sbagliati 9! Adesso ricominci e non ne sbagli neppure uno!».
Risp 2 «Bravo! Ne hai fatto giusto uno, adesso riprova e fanne giusti almeno 2».
Per ogni comportamento del nostro figlio/studente, possiamo trovare qualcosa di positivo su cui incentivarlo. Sta a noi la scelta se dargli fiducia o sfiduciarlo del tutto.

→ INSEGNAMENTO  ««Quando un bambino vi chiederà “Che cosa ho sbagliato?”.
Rispondiamogli: “Sei invece contento delle cose giuste che hai imparato?”.
Perché l’apprendimento è ciò che di positivo viene sottolineato»».

Dott. Gianluca Lo Presti

GREENPEACE: GIAPPONE, VA AVANTI IL PROGETTO DELLA BASE USA CHE MINACCIA I DUGONGHI

OKINAWA, 16.09.16 –  Il governo centrale giapponese ha vinto oggi un ricorso contro la decisione del governatore della Prefettura di Okinawa, che si opponeva alla realizzazione della base militare statunitense nella baia di Henoko, che ospita l’ultima popolazione di dugonghi del Giappone.

dugongo-150x150Le proteste a Okinawa contro la base statunitense durano da 20 anni. Quasi l’80 per cento della popolazione si oppone all’allargamento della base e il governatore di Okinawa è stato eletto con un programma di netta opposizione al progetto. Nel 2005 e nel 2007 le navi di Greenpeace hanno raggiunto la baia di Henoko/Oura, in solidarietà con la protesta. Un anno fa, invece, il governo centrale aveva negato alla Rainbow Warrior il permesso di entrare nella baia.

 

“Il tribunale avrebbe dovuto rispettare il diritto di autodeterminazione della Prefettura di Okinawa” afferma Yuki Sekimoto, portavoce di Greenpeace Giappone.

 

dugongoLa baia di Henoko/Oura è un paradiso di biodiversità: vi vivono 5.600 specie marine, di cui 262 sono in pericolo. Oltre ai dugonghi, tra le specie a rischio ci sono tre specie di tartarughe marine, varie specie di pesci pagliaccio e la più grande prateria di fanerogame marine dell’isola di Okinawa. Queste piante, simili alla posidonia del Mediterraneo, sono l’alimento del dugongo e non a caso in Giappone sono chiamate “jangusa”, che vuol dire appunto “erba dei dugonghi”. Le ricerche di Greenpeace effettuate nei fondali della baia dimostrano come a soli tre chilometri di distanza dalla base vi siano evidenti tracce di pascolo di questi mammiferi marini.

3 tipi di comportamenti negativi nei bambini: ecco come gestirli.

1- Esempi di comportamenti non adeguati

  • Protestare di fronte ad un divieto in maniera esagerata.
  • Fare dispetti a fratelli, amici o compagni.

Cosa potete fare di fronte a questi comportamenti?

Ignorateli.

Sembra essere una buona scelta, perché spesso vostro figlio assume questi comportamenti per attirare la vostra attenzione o per ottenere una cosa specifica che gli interessa in quel momento.

All’inizio tali comportamenti tenderanno ad aumentare per frequenza e intensità: è importante che voi non cediate, altrimenti dovreste ricominciare daccapo. Dopo qualche tempo, il comportamento disfunzionale diminuirà fino a estinguersi; sarà importante che insegniate al bambino strategie più adattive e funzionali per chiedere attenzione, esprimere richieste e superare la frustrazione dovuta a una risposta negativa.

Quando vi capita di essere molto stanchi e pensate di non riuscire a tollerare le proteste di vostro figlio, è preferibile che diciate un “sì” subito (laddove sia possibile), piuttosto che un “no” iniziale seguito da un “sì” che arriva, per sfinimento, dopo i suoi vari capricci. In quest’ultimo caso, il bambino imparerebbe che basta “alzare il tiro” per farvi desistere.

2- Esempi di comportamenti mediamente gravi

  • Disobbedire.
  • Utilizzare un linguaggio volgare.
  • Rifiutarsi di fare una cosa richiesta.
  • Dire bugie.
  • Trascurare gli incarichi che ricopre all’interno della famiglia.
  • Prendere una nota a scuola.
  • Non svolgere i compiti scolastici.

Cosa potete fare di fronte a questi comportamenti?

dsa2Togliete al bambino delle cose piacevoli.

Esistono due strategie: il costo della risposta e il time-out.

1. Costo della risposta
Il bambino perde un privilegio o un premio promesso o un’attività piacevole. Il costo dell’azione negativa deve essere stabilito in precedenza da voi e condiviso con il bambino, in modo che sappia a cosa va incontro.

2. Time-out
Fate sedere il bambino su di una sedia, zitto e tranquillo, per alcuni minuti (uno in meno rispetto agli anni del bambino), senza che s’impegni in nessuna attività e senza che possa lasciare la sedia. Se il bambino non obbedisce a una richiesta, avvertitelo che, se non lo farà, dovrà sedersi sulla sedia per alcuni minuti. Bisogna che il bambino capisca qual è comportamento scorretto e che abbia la possibilità di comportarsi bene. Se il bambino, a questo punto, non obbedisce, fatelo sedere e cominciate a calcolare il tempo. Se si alza, ditegli che il conteggio del tempo ricomincerà daccapo.  Se reagisce in modo aggressivo o comunque si rifiuta di stare seduto tranquillo per il tempo stabilito, utilizzate la strategia del costo della risposta o una punizione (cfr. più avanti) e fate ripartire il conteggio del tempo. Non sospendete mai la procedura. Dovere avere il controllo della situazione. Per un bambino, avere un adulto che decide al suo posto cosa si può o non si può fare, al contrario di quello che può sembrare, significa sentirsi sicuro, sollevato e libero, perché c’è qualcuno che decide per lui e che si assume la responsabilità di queste decisioni. Al termine della procedura, ripetete la richiesta al bambino: se la esegue, lodatelo, se non la esegue, ripetete il time-out. Attraverso questo metodo insegnerete anche al bambino a calmarsi e a controllare le proprie reazioni emotive: con il tempo, basterà solo l’avvertimento per ottenere il comportamento richiesto.

Se per voi è troppo faticoso agire nei modi descritti, perché i comportamenti lievemente e mediamente negativi sono troppi, sceglietene pochi su cui insistere e concentrarvi; l’importante è che lo facciate con continuità e coerenza e in accordo col partner.

3 – Esempi di comportamenti molto gravi

    • Aggredire fisicamente e verbalmente gli altri.
    • Fare cose pericolose o distruttive.

Cosa potete fare di fronte a questi comportamenti?

Ricorrete ad una punizione.

Questi comportamenti non possono mai passare inosservati. È possibile pensare a una punizione, cioè sottoporre il bambino a una situazione che per lui sia spiacevole, senza manifestare però aggressività verso di lui.

È importante, che, insieme alla punizione, rinforziate altri comportamenti positivi del vostro bambino. Ad esempio, se ha rotto intenzionalmente un oggetto, lodatelo quando mostra cura per altri oggetti oppure dategli la possibilità di rimediare al gesto distruttivo (per esempio riparando l’oggetto o ricomprandolo con i soldi della propria paghetta, laddove sia possibile) e lodatelo per questo. Vostro figlio deve poter avvalersi di esempi di comportamenti positivi e deve poter rimediare, in qualche modo, ai propri errori, in maniera che non abbia un’immagine prevalentemente negativa di sé.

 

Dott. Gianluca Lo Presti – www.gianlucalopresti.net

Come usare correttamente i farmaci

Per una mamma in dolce attesa è importante prendersi cura di sé e del proprio bambino.

In tal senso diventa fondamentale sottoporsi periodicamente a dei controlli. Inoltre per garantire la prevenzione e la salute di entrambi può essere utile effettuare anche test prenatali e conservare le staminali del cordone ombelicale.
Si pensa che assumere farmaci durante la gravidanza, nel caso in cui la mamma presenti alcuni disturbi, possa essere dannoso per la salute del nascituro. Si tratta di un falso mito sfatato dall’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) che promuove la salute delle donne in dolce attesa attraverso un portale internet che fornisce informazioni complete sull’utilizzo dei farmaci.
I farmaci non sono tutti dannosi per la salute del bebè e se sono stati prescritti dal medico possono essere utilizzati. Per le donne che soffrono di malattie croniche e che assumono farmaci prima ancora della gravidanza è indispensabile valutare cosa fare con uno specialista. È sconsigliabile interrompere di netto la terapia. Al contrario invece, è bene discuterne con il medico che valuterà il corretto dosaggio durante il periodo di gravidanza o eventualmente sostituirà il farmaco con un altro.
Con la nascita del bambino è importante mantenere una certa attenzione nella somministrazione dei farmaci ai bambini. L’Aifa nel corso delle sue ultime campagne di comunicazione¹, ha ricordato come molti genitori tendono erroneamente a somministrare ai bambini gli stessi farmaci degli adulti riducendone il dosaggio. Per la somministrazione di farmaci ai bambini è invece fondamentale consultare il medico per ricevere indicazioni corrette sul trattamento farmacologico più idoneo per il bambino.
Per attuare un piano di prevenzione e cura di diversi disturbi è necessario che ogni terapia sia prescritta da uno specialista, che può indicare il trattamento più idoneo sia per gli adulti sia per i bambini.
Ci sono patologie di grave entità per le quali i farmaci non sempre sono sufficienti, per questo motivo gli specialisti possono scegliere di ricorrere a trattamenti di diverso tipo. Uno strumento terapeutico sempre più valido nel trattamento di molte malattie sono le cellule staminali, la cui efficacia è dimostrata da numerosi studi. Anche il Ministero della Salute italiano riconosce il trapianto di cellule staminali del cordone ombelicale come un valido ed efficiente strumento terapeutico a oggi utilizzato per il trattamento di oltre 80 malattie, come riportato nel decreto Ministeriale del 18 Novembre 2009.

Per scoprirne di più sulle cellule staminali: www.sorgente.com
Fonti
1. Campagna di comunicazione AIFA “Farmaci e pediatria” (anno 2014)
2. Decreto ministeriale 18 novembre 2009 “Disposizioni in materia di conservazione di cellule staminali da sangue del cordone ombelicale per uso autologo-dedicato”

Scegliere il test prenatale: quali sono i parametri da valutare

Quando una donna aspetta un bambino sono tanti gli accorgimenti da prendere.
Per garantire il benessere di se stesse e del proprio bebè è importante mantenere uno stile di vita sano ed equilibrato per tutta la durata della gravidanza. A questi accorgimenti si aggiungono le visite di controllo di routine e i test di screening prenatale. Una mamma può decidere di sottoporsi a test prenatali non invasivi oppure, su indicazione dello specialista, può effettuare un esame di diagnosi prenatale invasiva.

I test di screening prenatale non invasivi rilevano eventuali anomalie cromosomiche e sono utili per avere un quadro sulla salute del nascituro già dalle prime settimane di gravidanza. Esistono diversi tipi di esami prenatali non invasivi come il Bi Test, il Tri Test e il test del DNA fetale, che si possono effettuare in diverse epoche gestazionali. Il test del DNA fetale può essere svolto precocemente, già dalla 10ᵃ settimana. Il suo tasso di affidabilità è del 99,9%¹ per la rilevazione di anomalie cromosomiche quali la sindrome di Down (Trisomia 21). Il tasso di falsi positivi del test di DNA fetale, cioè risultati del test che dichiarano la presenza di un’anomalia che in realtà non c’è, è più bassa dello 0,3%.

Bi Test e Tri Test si possono effettuare rispettivamente dalla 11a e dalla 15a settimana di gestazione. L’attendibilità di questi test di screening prenatale raggiunge l’85%​2, con un valore di falsi positivi che arriva fino al 5% per il Bi test; con il Tri test arriva al 60% circa con falsi positivi fino all’8%.
Nel caso in cui un test di screening prenatale non invasivo dovessero dare esito positivo o dovesse risultare non del tutto chiaro è opportuno che la mamma, su indicazione dello specialista, si sottoponga ad esami di diagnosi prenatale invasiva al fine di confermare o smentire il risultato del test. Tra i test di diagnosi prenatale invasivi rientrano l’amniocentesi, la villocentesi e la cordocentesi. Nel caso dell’amniocentesi, la gestante si sottopone al prelievo di un campione di liquido amniotico. Nel caso della villocentesi invece viene prelevato un campione di tessuto della placenta, mentre con la cordocentesi si procede con l’estrazione di un campione di sangue dal cordone ombelicale del bambino. Questi esami, in quanto invasivi, hanno un rischio di aborto pari all’1%2.
È importante quindi valutare attentamente il test di screening non invasivo a cui sottoporsi, per ottenere risultati attendibili che riducano le probabilità di dover affrontare esami invasivi.
Scopri il di più sui test del DNA fetale su www.testprenataleaurora.it.

Fonti:
1. Poster Illumina ISPD_2014 Rev A
2. Medicina dell’età prenatale: Prevenzione, diagnosi e terapia dei difetti congeniti e delle principali patologie gravidiche, di Antonio L. Borrelli,Domenico Arduini,Antonio Cardone,Valerio Ventrut

Partorire in acqua: tutti i vantaggi e le controindicazioni

Una scelta sempre più frequente tra le donne in dolce attesa: è il parto in acqua.
Fonte primaria della vita nonché alleata preziosa per il benessere fisico, l’acqua consente di svolgere diverse attività, tra le quali un corso preparto, ideale per chi scegli di partorire in acqua.
Da alcuni anni infatti, sono molti gli ospedali che si sono attrezzati per rispondere al desiderio delle future mamme di partorire in acqua, un tipo di parto definito “dolce” perché meno traumatico per il bambino. Trovandosi in una dimensione più naturale infatti, il neonato passerà dal grembo materno, dove è stato immerso nel liquido amniotico, direttamente all’ambiente acquatico.

Gli ospedali che consentono di partorire in acqua sono attrezzati con vasche profonde circa 70-80 centimetri, grandi a sufficienza per permettere alla gestante di muoversi liberamente e assumere la posizione che più gradisce per il parto. La vasca viene riempita di acqua calda (non superiore ai 37 gradi) e filtrata continuamente affinché rimanga pulita fino alla nascita del piccolo.
I vantaggi per chi sceglie questo tipo di parto sono molteplici: come prima cosa l’acqua ha un effetto rilassante sulla muscolatura, consentendo di far diminuire la percezione del dolore e aumentando le probabilità che i tempi del travaglio siano ridotti. A rilassarsi sono anche i muscoli perineali e ciò può far diminuire le possibilità di dover poi ricorrere all’episiotomia.
Ogni futura mamma nella vasca è libera di assumere la posizione che preferisce ed il parto in acqua in generale riduce l’intervento del medico o dell’ostetrica, figure che non entreranno mai nella vasca, ma seguiranno da fuori tutta la fase del travaglio.
Anche il bambino potrà godere di diversi benefici. La nascita sarà infatti meno stressante, passando da un liquido all’altro, e il tutto senza subire sbalzi termici.
Vediamo ora qualche indicazione di massima per il parto in acqua. Durante il travaglio si può entrare nella vasca solo dopo essere arrivate ad una dilatazione di 3-4 centimetri, perché il contatto con l’acqua potrebbe fermare il processo di dilatazione con il suo effetto “sedativo”.
Non dimentichiamo qualche svantaggio e controindicazione. Chi sceglie il parto in acqua deve sapere che non potrà praticare l’epidurale, perché le donne che scelgono l’analgesia non devono immergersi in acqua.
Ci sono poi alcune categorie di gestanti che non possono scegliere il parto in acqua: chi soffre di gestosi, ipertensione o altre patologie, chi ha già vissuto una gravidanza a rischio, chi aspetta dei gemelli o in caso di bimbo podalico.
Questa tipologia di parto deve sempre essere scelta insieme al proprio ginecologo, che considererà lo stato generale di salute della futura mamma per dare il suo consenso.

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TRE NUOVI FIOCCHI IN VASCA PINGUINI

Un’ estate eccezionale all’Acquario di Genova che dopo la nascita di un cucciolo di foca annuncia tre fiocchi nella vasca dei pinguini tra cui una coppia di pinguini di Magellano (Spheniscus magellanicus) “gemelli”. I due piccoli in realtà non sono nati dallo stesso uovo, ma a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro da due diverse uova. Il terzo fiocco, appartenente alla stessa specie, è nato a qualche giorno di distanza da un’altra coppia di pinguini di Magellano.

La vasca dei pinguini dell’Acquario di Genova ospita 21 esemplari di due specie diverse Magellano e Papua. Il lato terrestre riproduce i due habitat delle specie ospitate ricreando le condizioni ideali per la riproduzione e l’allevamento dei cuccioli.

I due fratelli sono nati a pochi giorni l’uno dall’altro il 14 e 16 giugno da uova deposte nel nido nella parete della vasca espositiva il 3 e 4 maggio. Le uova sono state covate alternativamente da papà e mamma: entrambi i genitori provvedono a nutrirli rigurgitando alimenti pre digeriti direttamente nel loro becco. Non abbandonano mail il nido contemporaneamente.

Usciti per la prima volta dal nido il 12 luglio, dopo circa un mese dalla schiusa, pesano già circa 2 kg. Si possono vedere nei pressi del nido in alcuni momenti della giornata, osservare i loro primi passi e il sottile piumaggio grigio di questa prima fase di vita.
Nonostante il terzo pulcino sia nato a quindici giorni di distanza, ovvero il 2 luglio da un uovo deposto il 15 maggio, è già visibile in alcuni momenti fuori dal nido.

Per sapere sesso e nome il pubblico dovrà aspettare ancora. È necessario infatti l‘esame del DNA.

I piccoli raggiungeranno l’indipendenza in un periodo variabile tra le 9 e le 17 settimane, a seconda della quantità e qualità del cibo ricevuto; anche la peluria grigia verrà ben presto sostituita dal caratteristico piumaggio bianco e nero degli adulti.
Entro i 2 mesi di vita faranno la prima muta, passando dal piumaggio grigio alle piume impermeabili che consentiranno loro l’ingresso in acqua. In questa fase di muta, potrà essere necessario spostarli in una vasca curatoriale non visibile al pubblico per abituarli gradualmente al contatto con l’acqua, al nuoto, all’uscita dall’acqua stessa e alla termoregolazione.

I pinguini di Magellano sono animali monogami, formano coppie estremamente stabili che possono durare per tutta la vita. Vivono lungo le coste orientali e occidentali del Sud America a partire da Cile e Argentina fino a Capo Horn e alle isole Falkland. Raggiungono la maturità sessuale intorno ai 4 anni le femmine ed intorno ai 5 anni i maschi. Possono arrivare a 70 cm. di altezza e pesano tra i 3 e i 4,5 kg.

La vasca espositiva, che oltre ai pinguini di Magellano ospita diversi esemplari di pinguino Gentoo (Pygoscelis papua), è visibile da due livelli e consente al pubblico di immergersi idealmente nel mondo dei pinguini e di poterli osservare durante la loro permanenza sulle rocce, nel loro agile e veloce movimento subacqueo e nei balzi e guizzi per uscire dall’acqua.

All’interno della vasca sono riprodotte le condizioni stagionali dell’ambiente naturale in cui vivono le due specie ospiti; la temperatura dell’acqua varia da 6 a 10° C, quella dell’aria può variare da 8 a 12° C, secondo le stagioni.

Cosa aspettate? Venite a conoscere i nuovi arrivati!

Diagnosi di DSA: sono tutti DSA…?

“Diagnosi di DSA: sono tutti DSA o capita che vi siano ‘difficoltà’ che realmente sarebbero recuperabili, ma che invece vengono diagnosticati come DSA?”

I DSA esistono, che sia chiaro, ma “quanto” una scuola poco efficace nella didattica (o negli stili relazionali) contribuisce a fare aumentare difficoltà anche ad alunni che non hanno un DSA, e che poi operatori poco esperti (aggiungo io) scambiano come DSA?

Stavolta facciamo il contrario. Parliamo di quali sono i rischi in cui si incorre quando un bambino con semplici difficoltà di apprendimento viene scambiato per un DSA, e come fare per evitarlo.

Da quando l’8 ottobre 2010 è stata approvata la Leg 170 sono stati garantiti a tutti i bambini con Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) il successo scolastico (Art 2, comma 1, punto b).

Insomma, quelli che prima erano considerati come bambini svogliati o con scarse abilità oggi possono essere segnalati come casi sospetti di DSA: ma sarà sempre e solo dopo una valutazione specialistica che potremo conoscere la diagnosi precisa.

Quello che oggi dunque avviene è che la scuola segnala gli studenti con difficoltà evidenti nell’apprendimento: di tutti questi casi individuati è molto probabile che alcuni poi siano diagnosticati come DSA, ovvero con un disturbo a carattere neurobiologico e che necessitano di una didattica personalizzata, uso di strumenti dispensativi/compensativi e attività di potenziamento (DM 5669/11, MIUR).

Tra i casi segnalati però, vi potranno anche essere i bambini con difficoltà di apprendimento, dunque senza nessun disturbo neurobiologico, ai quali ciò che serve è una migliore didattica, un metodo di studio più efficace, o con previ cicli di aiuto pomeridiano, infatti sono proprio coloro ai quali basta poco per ottenere notevoli miglioramenti che spesso rientrano nella “difficoltà” di apprendimento, piuttosto che di un “disturbo”.

E se dunque anche bambini con difficoltà di apprendimento venissero invece diagnosticati come DSA? Cosa cosa potrebbe succedere e come evitare che ciò accada?

Facciamo un esempio: se un bambino è Dislessico, quindi che la sua caratteristica neurobiologica gli rende difficoltoso apprendere dei concetti attraverso lo strumento della lettura, scrittura o calcolo, quello che posso fare, ad esempio, è di non farlo leggere come primo lettore (dispensazione) e di aiutarlo leggendo io il brano o tramite sintesi vocale (compensazione). Se invece un bambino ha una semplice difficoltà di apprendimento ma lo scambio per Dislessico e lo dispenso dalla lettura, accade che gli precludiamo un apprendimento in cui invece potrebbe riuscire autonomamente. La stessa situazione potrebbe accadere negli errori ortografici (disortografia), qualità della scrittura (disgrafia) ed errori ed abilità di calcolo (discalculia).

Per evitare che ciò accada

In Italia abbiamo delle linee guida per effettuare le diagnosi di DSA molto precise e dettagliate: CC, PARC e ISS CC.

Questi documenti indicano in modo preciso che servono alcuni criteri specifici per la diagnosi di DSA.

Nel dettaglio ne servono n°”X” di criteri di inclusione e n°”X” per quelli di esclusione. Se questi sono presenti allora ne serviranno altri n°”X” per la dislessia, n°”X” per disortgrafia, n°”X” per la disgrafia e n°”X” per discalculia.

Insomma, i documenti ufficiali riportano di conseguenza che la diagnosi di DSA sia qualcosa di più di un elenco di prove e punteggi. Ma è fatta di un’anali accurata del caso in esame, al fine di individuare nel dettaglio non solo se è DSA o meno, ma anche che tipo di DSA e come esso funziona (diagnosi funzionale).

Accertarsi dunque con precisione se si tratta di DSA o meno è indispensabile per l’aiuto pertinente. Infatti se la diagnosi non è ben definita, rischiamo la mancata identificazione del problema, come quando troviamo nelle diagnosi la semplice sigla “trattasi di DSA Dislessia, etc.”, mentre in realtà ci interessa sapere di che tipo di Dislessia stiamo parlando, esempio se fonologica o lessicale. Da qui cambia tutto per l’aiuto per quel preciso soggetto.

Una diagnosi generica è spesso una delle causa di un aiuto inadeguato. Pertanto nello scambiare un bambino con difficoltà di studio per DSA , corriamo il rischio sia di non ottenere miglioramenti e sia di avere possibili ricadute sul piano sia emotivo e che motivazionale.

Per concludere qui questa parte possiamo soprattutto che servirebbe dedicare molto più tempo a parlare con le famiglie e molto meno tempo a somministrate test. Ma di questo preciso argomento ne parleremo nei prossimi giorni sempre qui nel nostro sito.

 

www.gianlucalopresti.net

 

7 cose da sapere sul come NON farsi abbindolare nel campo dei DSA (guida genitori).

Inizia un nuovo anno scolastico e di certo sarà capitato anche a te di trovare proposte, pubblicità, inviti e quant’altro per i propri figli con Dislessia e Disturbi Specifici di Apprendimento.

In tal senso, vorrei provare a fornirvi una nostra breve guida al fine di risparmiare tempo, denaro e risorse (almeno secondo noi), ecco le 7 cose da conoscere assolutamente.

1- “Con questo risolvi tutti i problemi”. Evitate strumenti e materiali che si propongono come soluzioni immediati per tutti i DSA.

I DSA sono molto complessi, e sono Dislessia (lettura, velocità/correttezza), Disortografia (problemi ortografici), Disgrafia (espressione grafica scrittura), Discalculia (calcoli e fatti numerici), servono strumenti e materiali studiati caso per caso. Trovate quello che serve al caso vostro. La logica “uno per tutti”, purtroppo, in questo caso, non va bene. Ancora meno bene un qualcosa con cui risolvo immediatamente tutti i problemi a scuola.

2- “Efficacissimo per la Dislessia”. Il concetto di efficacia riguarda validazioni scientifiche. Spesso il termine “efficace” viene usato nel marketing per attrarre l’utente. Ciò non toglie che potrebbe essere efficace davvero, invitiamo solo ad essere cauti.

3- “Problemi educativi”, e/o “problemi didattici”. Molti, e sottolineamo, molti genitori hanno con i propri figli problemi educativi o generali di apprendimento. Come anche i bambini con Dislessia e DSA. Ma ciò non ci deve indurre in confusione. Infatti non è affrontando la Dislessia con utilissimi consigli educativi che potete far apprendere meglio vostro figlio. E neppure con semplici ed usuali strategie didattiche che possono andare bene anche con chi non è dislessico. Certo, queste cose aiutano enormemente, ma la strada maestra è intervenire sul problema reale (una lettura che non si può usare per l’apprendimento in modo comune) e non su fattori, reali ma tuttavia continenti e paralleli.

4- “Interviste e convegni”. Ne esistono di strepitosi, come interviste, convegni ed altro. Anche noi li facciamo girare al fine di divulgare una corretta conoscenza dal problema. Ma restano fini a se stessi, ovvero semplicemente come attività di sensibilizzazione. Tecnica della sensibilizzazione spesso usata per attrarre sul proprio servizio o associazione l’attenzione di molti. Utili in un primo momento, ma, purtroppo, non sufficienti.

5- “Gruppi di bambini con Dislessia”. Iniziamo con il dire che sono uno strumento molto utile, e consigliatissimo. Unica cosa di cui stare attenti è: cosa ne pensa il bambino? E’ pronto a confrontarsi con gli altri? Il condutture degli incontri è un semplice volontario oppure una persona qualifica ed esperta? Purtroppo, alle volte pur di avere un buon numero si inseriscono tutti i bambini che ne fanno richiesta, senza effettivamente verificare se sia il caso o meno. In più, piccole o grandi realtà associative territoriali, pur di risparmiare, convocano volontari o personale non prettamente qualificato. Potrebbe essere impopolare dirlo, ma sulla salute emotiva dei nostri figli, meglio pensarci bene se fare o non fare un tipo di attività.

6- “Pc a scuola”. Non fatevi prendere dalla foga della soluzione “immediata”, rischiate davvero molto, ecco perché: A) se un bambino non sa ben usare i programmi (magari dopo un percorso di training di autonomia) non lavorerà bene con il Pc e piano piano lo abbandonerà; B) Le difficoltà di apprendimento comportano difficoltà anche con il Pc, dunque se non vi sarà un’adeguata abilità di velocità di lettura o di scrittura su tastiera sarà probabilmente tutto inutile; C) integrazione del bambino con dislessia e del suo Pc in classe: gli altri bambini come si comportano? Lui ne è favorevole? Spesso pur di vendere programmi costosissimi si è disposti a by-passare l’opinione del diretto interessato: il bambino con dislessia.

7- “Esperti in Dislessia e DSA”. Questo richiederebbe un capitolo a parte, lo faremo nei prossimi mesi. Per adesso sottolineamo che per quanto concerne l’aiuto al bambino con Dislessia, fatevi sempre dire con estrema chiarezza quali obiettivi si intende raggiungere e quali sono i tempi. Ad esempio: “obiettivo velocità di lettura, con X materiale, dovremmo osservare un miglioramento già dopo 4/5 mesi”. Oppure ancora “essere autonomo nello studio tramite le mappe, 10 incontri, lavorando con il software Y”.

Non si tratta solo di risparmiare risorse e denaro, e neppure di fare con esattezza la cosa giusta. Si tratta semplicemente di non sprecare la più importante risorsa che abbiamo: il tempo che dedichiamo al bambino con Dislessia e DSA. Quello, mai più nessuno ve lo potrà restituire.

Con un cordiale saluto.

www.gianlucalopresti.net    Dr. Gianluca Lo Presti.

La Terra. 4) La vita

Circa 3 miliardi ed 800 milioni di anni fa comparve il primo essere vivente unicellulare.

Sulla giovane Terra si instaurò assai presto un ciclo dell’acqua: le piogge trasportavano i composti venefici dell’atmosfera primigenia (CO2, CH4, NH3, H2S…) nei fiumi e quindi nel mare. Qui essi subivano grandi apporti di energia dalle scariche elettriche dei fulmini, assai frequenti in quei remotissimi acquazzoni, dai vulcani di cui la crosta solida abbondava, e forse dall’azione dei raggi ultravioletti del Sole (non vi era certo lo strato di ozono a proteggere il mondo) e dall’attività dei materiali radioattivi, certamente a quei tempi assai maggiore dell’attuale.

Ciò provocò la reazione dei semplici composti sopra citati a formare molecole più complesse: gli aminoacidi, che non sono altro che le basi chimiche della vita. Infatti il citoplasma cellulare consiste di molecole di proteine, a loro volta formate da varie combinazioni di molecole di amminoacidi unite in serie fra loro, mentre il materiale genetico è formato da lunghe molecole di acidi nucleici, formati da diverse combinazioni di unità molecolari molto più semplici, i nucleotidi, anch’essi uniti in serie.
Tutto questo fa comprendere come la comparsa di organismi viventi debba essere stata preceduta dalla formazione di un complesso ambiente chimico detto comunemente « brodo primordiale », e descritto come una soluzione di sostanze organiche formatesi in seguito a processi non biologici.
Comunque siano andate le cose, è un dato di fatto che l’RNA ed il DNA si sono formati; questi aggregarono altre proteine, bolle d’aria, molecole d’acqua ed una pellicola esterna di zuccheri e proteine. Ebbe così origine una struttura complessa cui è stato dato il nome di coacervato (“ammucchiato”): un’aggregazione sferica di molecole lipidiche che formano un’inclusione colloidale, tenute insieme da forze di natura idrofobica. I coacervati misurano da 1 a 100 micrometri, possiedono proprietà osmotiche e si formano spontaneamente in alcune soluzioni organiche diluite. Si arriva in tal modo ai protobionti, come li ha chiamati il biochimico russo Alexander Oparin (1894-1980), che negli anni trenta del secolo scorso fu tra i primi a studiare la genesi della vita. I protobionti dovevano essere organismi microscopici, forse simili ai batteri attuali del tipo cocchi, ed erano eterotrofi, cioè non erano in grado di sintetizzare in modo autonomo le sostanze nutritive organiche loro necessarie, ma si trovavano costretti ad assumerle direttamente dall’ambiente circostante. Tutto questo richiede naturalmente che l’organismo eterotrofo sia immerso costantemente in acqua o almeno in un ambiente umido, indispensabile veicolo per far penetrare quelle sostanze in soluzione attraverso una primitiva specie di membrana.
Sulla base delle tracce fossili di Fig Tree, nello Swaziland, nelle quali fu ritrovato il più antico microrganismo fossile conosciuto, si può dire che, ad un solo miliardo di anni di distanza dall’origine della Terra, sulla superficie del nostro pianeta erano già comparsi i primi organismi viventi.

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I primi esseri viventi erano eterotrofi ma una volta esaurite le « scorte alimentari » dell’ambiente circostante, gli eterotrofi si sarebbero infatti necessariamente estinti. Il processo evolutivo superò questo ostacolo con la realizzazione di un meccanismo di nutrizione più sofisticato: alcuni batteri primitivi (cianobatteri) diedero infatti vita ai primi organismi autotrofi, cioè capaci di sintetizzare in modo autonomo le sostanze nutritive organiche a partire da semplici sostanze inorganiche, come l’anidride carbonica e l’acqua, mediante un processo detto fotosintesi, che sfrutta direttamente l’energia della luce solare. In tal modo, con lo sviluppo degli autotrofi, gli eterotrofi hanno potuto proseguire la loro evoluzione, avendo a disposizione gli autotrofi come nutrimento. Non sappiamo come questo sia avvenuto, ma sappiamo con certezza che era già avvenuto circa 2,4 miliardi di anni fa: a quell’età risalgono infatti le rocce sedimentarie (selci) di Gunflint in Canada, nelle quali compaiono le primissime e semplici cellule procariote, cioè prive di un nucleo delimitato da una vera e propria membrana, ed il cui materiale dnatico è semplicemente contenuto nel citoplasma della cellula. Questi organismi pionieri furono le alghe verdazzurre.
La clorofilla le rendeva capaci di trasformare l’anidride carbonica, di cui l’atmosfera abbondava, in ossigeno, che esse riversarono negli oceani e nell’atmosfera. Furono proprio quelle prime alghe unicellulari a cambiare per sempre il volto del pianeta, perché la produzione di ossigeno rese l’atmosfera respirabile, e ciò avrebbe permesso alla vita di diffondersi ovunque, invadendo tutti gli ambienti.

La Terra. 3) Periodo ARCHEANO

Al periodo Archeano risalgono le formazioni rocciose più antiche oggi superstiti sulla Terra, e proprio la scarsità di testimonianze rende incerta la nostra conoscenza di questo periodo, il quale copre l’arco di tempo che va da 3,8 miliardi a 1,6 miliardi di anni fa.

I cratoni e i protocontinenti
Al principio di quest’epoca il nostro pianeta aveva già una crosta solida, in cui si distinguevano ampie aree depresse, coperte dagli oceani, e alcuni settori emersi, in cui lo spessore della crosta era andato aumentando per il formarsi e accumularsi di rocce simili al granito. Oltre che in Australia e in Groenlandia, dove affiorano le più antiche testimonianza di quelle lontane fasi di evoluzione della Terra, rocce di età compresa tra i 3,4 e i 3 miliardi di anni, di origine sedimentaria, sono state trovate in Sudafrica, e rocce analoghe per natura ed età sono state riconosciute anche in Africa, in Siberia e nel Sudamerica. Si tratta delle aree note come cratoni, che comprendono i frammenti più antichi dei continenti attuali, di difficile interpretazione perché consistono di complesse successioni di rocce metamorfiche che sono state in molti casi intruse da grandi corpi ignei nel rincorrersi delle ere geologiche.

Durante l’Archeano sono stati ritrovati i resti delle primissime orogenesi (quando i continenti vanno a sbattere l’uno contro l’altro, si verificano imponenti eventi orogenetici, cioè si formano ampie catene montuose),  da tempo totalmente spianate dall’erosione; rimangono solo le rocce dei loro nuclei, profondamente metamorfosate. Si sono riconosciute rocce di origine desertica ed estesi depositi morenici distribuiti in molti punti del globo, testimonianze di profondi mutamenti climatici su scala mondiale, analoghi a quelli messi in luce, con molti più dettagli, per età più recenti.

In alcuni scudi, tra le rocce di antiche orogenesi, compaiono le ofioliti o rocce verdi, cioè resti di crosta oceanica: questo significa che già da allora i bacini oceanici si aprivano e si richiudevano, mentre i continenti si allontanavano o si avvicinavano, come accade tuttora in seguito alla deriva dei continenti.

I continenti emersi
Al principio dell’Archeano risalgono i primissimi indizi dell’esistenza di continenti emersi. Si pensa che il più antico in assoluto sia il continente di Vaalbara, il cui nome deriverebbe da quelli della regione sudafricana del Kaapvaal e dell’area di Pilbara(Australia Occidentale), in cui si trovano ancora racchiuse come reliquie le loro antichissime rocce: Vaalbara sarebbe già esistito circa 3,3 miliardi di anni fa. Poco dopo di esso è attestata la formazione del continente di Ur, il cui nome nulla ha a che fare con la biblica patria di Abramo, ma deriva dal tedesco Urkontinent (“continente ancestrale”), e che sarebbe emerso circa 3 miliardi di anni fa. Ma come essi si sono formati esattamente? Un’ipotesi è che essi siano nati per accrezione, cioè per sovrapposizione successiva delle cosiddette “Cinture di Greenstone”, che a partire dagli anni settanta sono state interpretale dalla maggior parte dei geologi come antichissimi archi di isole vulcaniche formatisi lungo i margini delle placche tettoniche in collisione, e successivamente diventati parte degli attuali continenti.

Infatti, quando un oceano si chiude, la crosta oceanica più pesante si immerge nel mantello scivolando sotto la crosta oceanica, e formando profonde fosse di subduzione: è ciò che accade alla Placca di Nazca, che sta scivolando sotto la Placca Sudamericana dando vita all’imponente sistema montuoso delle Ande: questo scontro ha tra l’altro provocato il catastrofico terremoto di 8,8 gradi Richter che il 27 febbraio 2010 ha colpito il Cile. La fusione della crosta basaltica scivolata in profondità provoca la riemersione di magma, che dà vita a grandi archi vulcanici lungo il margine di una fossa oceanica: in questo modo si sono formate le isole giapponesi, parallele alla profonda fossa del Giappone siccome il fondo del Pacifico sta scivolando sotto la placca asiatica. Quando l’oceano si chiude, le isole così formate non vengono trascinate nel mantello insieme al resto delta crosta, ma vanno a scontrarsi contro la placca continentale già esistente e si uniscono ad essa. Questo è il caso del cosiddetto “continente di Avalonia”, un arco insulare esistente nel Paleozoico Oceano Giapeto, il precursore dell’attuale Oceano Atlantico; quando esso si chiuse dando vita al supercontinente Pangea, Avalonia venne schiacciato contro Nordamerica ed Europa, ed oggi le sue rocce costituiscono parte del New England, dell’isola di Terranova, dell’Irlanda, l’Inghilterra ed il Galles, il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania settentrionale e la Polonia nordoccidentale (come si vede, dopo l’apertura dell’Oceano Atlantico parte di Avalonia restò su una delle sue sponde e parte sull’altra).

 

Antichi supercontinenti

Naturalmente, subito dopo la loro nascita, i continenti cominciarono ad andare alla deriva sul mantello fluido sottostante. I dati paleomagnetici hanno permesso di ricostruire, sia pure con molte incertezze, la posizione reciproca delle aree continentali, che nel loro vagabondare sono entrati più volte in collisione, saldandosi in un’unica vasta massa, per disarticolarsi però ben presto in nuovi frammenti alla deriva. Nel corso dell’eone Archeano abbiamo indizi dell’esistenza di almeno tre supercontinenti formatisi e disgregatisi in continuazione, ecco i loro nomi:

  • Kenorlandia, fra 2,7 e 2,2 miliardi di anni fa, che comprendeva la Laurentia (il nucleo di quello che oggi sono il Nord America e la Groenlandia), la Baltica (l’attuale Scandinavia e i paesi baltici), l’Australia occidentale e il Kalahari;

  • Columbia o Hudsonia, tra 1,8 ed 1,5 miliardi di anni fa, che comprendeva Laurentia, Baltica, Siberia, Ucraina, Amazzonia, Australia, il Nord della Cina e il Kalahari, e si estendeva per ben 13.000 km lungo l’asse nord-sud;

  • Rodinia (dal russo rodit, “generare”), tra 1,3 e un miliardo di anni fa, centrata probabilmente a sud dell’equatore e ricoperta da vaste calotte glaciali per buona parte della sua storia.

La Terra. 2) Periodo ADEANO

ADEANO o epoca pregeologica  – da 4,5 miliardi a 3,8 miliardi di anni fa.

E’ il periodo di tempo che va da quando si è formato l’ammasso gassoso da cui ha avuto origine la Terra alla sua trasformazione in un corpo solido.

Il suo nome significa “infernale”, perchè esso rappresenta l’epoca durante la quale si formò la crosta terrestre, inizialmente incandescente; quindi, a quei tempi la superficie del nostro pianeta doveva apparire come un vero e proprio inferno. Questo nome venne introdotto per la prima volta nel 1972 dal geologo Preston Cloud (1912-1991), per indicare il periodo antecedente la formazione delle rocce più antiche sulla Terra.

L’Adeano è suddiviso in tre periodi:

  • Criptico,
  • Nettariano,
  • Imbriano.

Lo sviluppo della crosta terrestre

Su questo processo lento e decisivo per la nostra storia non si hanno ancora certezze; si ritiene tuttavia che gli elementi pesanti, come il ferro, andarono a depositarsi al centro a causa della forza di gravità, mentre gli elementi più leggeri, i silicati, formarono un oceano incandescente alla superficie. Dopo circa 500 milioni di anni dalla nascita della Terra, il paesaggio incandescente iniziò a raffreddarsi: la dissipazione di calore nello spazio diede inizio al raffreddamento del nostro pianeta, e nell’oceano di magma cominciarono a comparire lembi di rocce formate da minerali ad alto punto di fusione, una sorta di zattere roventi ma solide simili alla crosta sottile che vediamo formarsi alla superficie di una colata di lava, mentre questa sta ancora fluendo dal cratere. In quei tempi la Luna, ancora rovente, distava dalla Terra solo 16.000 Km contro i 384.000 attuali, per cui doveva invadere gran parte del cielo, dal quale meteoriti o addirittura piccoli protopianeti dovevano continuare ad abbattersi nell’oceano incandescente.

Poi, l’abbassamento della temperatura al di sotto dei 1000 gradi consentì il consolidamento delle zone con temperature più basse che, divenute più stabili, avviarono la costruzione della futura crosta terrestre. Ma quei primissimi frammenti di crosta dovevano essere anche molto instabili, e dovevano venir facilmente riassorbiti dalla massa liquida e rifusi in profondità. Solo con l’ulteriore raffreddamento del pianeta, quei frammenti devono essere diventati abbastanza numerosi e grandi da formare un primo involucro solido, cioè una vera crosta primitiva. Quella prima crosta doveva apparire come una distesa di rocce caldissime (qualche centinaio di gradi Celsius), interrotta da numerose grandi fratture, dalle quali continuavano a risalire enormi quantità di magma.

Nel corso dell’Adeano, il pianeta Terra fu interessato da un evento particolarmente distruttivo chiamato « grande bombardamento tardivo »: circa 3,9 miliardi di anni fa asteroidi di grandi dimensioni bombardarono il pianeta con una potenza incredibile, per via del fatto che in quell’epoca il giovane sistema solare era ancora molto affollato da piccoli oggetti, ed in virtù della forza di gravità i corpi maggiori andavano “ripulendo” le loro orbite da tutti i “sassi” spaziali che fino a quel periodo le infestavano. Questo attivissimo bombardamento meteoritico doveva aprire continuamente nuove lacerazioni nella crosta, subito invase dal magma. Il fenomeno sembra aver avuto origine da un’instabilità nella fascia degli asteroidi, a sua volta causata dalla migrazione dei pianeti giganti gassosi verso le loro orbite attuali. Le tracce di quell’intenso bombardamento meteoritico, protrattosi per almeno 700-800 milioni di anni, sono state quasi totalmente cancellate sulla Terra dall’erosione da parte degli agenti atmosferici, ma sono invece perfettamente conservate sulla Luna e su molti altri corpi del Sistema Solare, la cui evoluzione si è arrestata da lunghissimo tempo, sotto forma di crateri da impatto, a volte colmati di lava.

Le memorie di questi giganteschi impatti si trovano in spessi strati rocciosi che ne contengono tuttora i frammenti, cioè sferule di roccia fusa dal calore sprigionato dalle collisioni. Naturalmente lo studio di questi resti è complicato dal fatto che le rocce adeane sono più rare di qualunque altro tipo di roccia sulla Terra, e che i segni delle sferule da impatto sono stati ritrovati solo in terreni in cui erano presenti condizioni ideali per la preservazione, come nei depositi di scisti sul fondo del mare.

Il ferro nel cuore della Terra

La chimica del ferro può raccontare molti particolari dell’evoluzione geochimica del nostro pianeta, in particolare di quella del nucleo. Quando la Terra, appena formatasi dall’aggregazione dei materiali che circondavano il Sole, era ancora una massa non solidificata, gli elementi più densi, come il ferro, sono sprofondati verso il centro, creando il nucleo terrestre e una struttura a strati che è sopravvissuta fino alla nostra epoca. Il ferro in particolare si è separato dai silicati, composti di silicio e ossigeno, che sono andati a costituire il mantello, subito sopra il nucleo, che a sua volta è stato ricoperto dalla crosta terrestre. In questo modello complessivo mancano però molti dettagli, essenzialmente per la difficoltà tecnica di ottenere campioni del nucleo terrestre. Un aiuto viene dai dati della propagazione delle onde sismiche attraverso i vari strati terrestri, che indicano inequivocabilmente che nel nucleo ci sono anche elementi più leggeri del ferro, sulla cui natura e concentrazione però è in corso un acceso dibattito. La questione di fondo è che il ferro nel suo moto verso l’interno della Terra ha interagito con elementi più leggeri, con cui si è legato formando composti. E per capire quali furono esattamente questi elementi bisognerebbe conoscere con precisione le condizioni in quel momento, in particolare pressione e temperatura.

L’atmosfera primordiale

Dalle rocce incandescenti e dal mantello terrestre, soprattutto per opera dell’attività vulcanica, si sprigionavano ammoniaca, idrogeno, biossido di carbonio, metano, vapore acqueo ed altri elementi che, nel giro di 100 milioni di anni, gradualmente formarono l’atmosfera primordiale. Era estremamente tossica per la vita che conosciamo ai nostri giorni, essendo costituita in gran parte da una fitta nebbia di sostanze organiche gassose.

Quando la Luna aveva un campo magnetico

Fra i 4,5 e i 3,56 miliardi di anni fa  anche la Luna era dotata di una geodinamo che alimentava un campo magnetico globale. Benché oggi la Luna non abbia un suo campo magnetico globale, già le missioni Apollo avevano permesso di rilevare nei campioni di rocce lunari una magnetizzazione residua, la quale dimostrava che un tempo anche il nostro satellite ne possedeva uno.

La formazione degli oceani

Nello stesso tempo, sulla superficie terrestre cominciò a manifestarsi un’altra imponente serie di eventi, che portarono alla formazione delle rocce sedimentarie, attraverso processi di erosione, trasporto e accumulo. Tali processi divennero pienamente attivi non appena la superficie si raffreddò abbastanza da permettere l’instaurarsi del ciclo dell’acqua. Infatti la Terra primitiva rimase a lungo avvolta dalle tenebre, sotto una spessa cappa di dense nubi ardenti formate dal vapore acqueo continuamente riversato nell’atmosfera dalle esalazioni vulcaniche; quando la temperatura scese abbastanza, le nubi cominciarono a sciogliersi in pioggia, e l’atmosfera primordiale diede vita a tempeste di inimmaginabili proporzioni, sotto le quali la Terra gemeva e ribolliva.

In un primo tempo, abbattendosi sulle rocce incandescenti, la pioggia svaporava, ma con il graduale raffreddamento della crosta solida l’evaporazione andò diminuendo finché l’acqua poté condensare nelle zone più depresse della superficie terrestre, formando i primi oceani, mentre gli altopiani rocciosi formarono i continenti. Su di essi si costituirono anche i primi reticoli fluviali, che trasportavano i detriti strappati alle zone più elevate e li riversavano sul fondo dei mari primordiali.

A poco a poco il nostro pianeta assunse un aspetto a noi più familiare, con una zona gassosa ricca di nubi detta atmosfera, una liquida con oceani, laghi e fiumi, detta idrosfera, ed una solida indicata con il nome di litosfera, con i primi abbozzi di quelli che diventeranno i futuri continenti.

 

 

 

La Terra. 1) Periodo PRECAMBIANO

DA 4 MILIARDI E CINQUECENTOMILIONI DI ANNI FA A 542 MILIONI DI ANNI FA

È l’era più antica della storia della Terra. 

La vita inizia sulla Terra con i primi invertebrati con esoscheletro (542 milioni di anni fa).

Il PRECAMBIANO si divide in 3 periodi:

  • ADEANO – (da 4,5 miliardi a 3,8 miliardi di anni fa)
  • ARCHEANO – (da 3,8 miliardi a 1,6 miliardi di anni fa)
  • ALGONCHIANO – (da 1,6 miliardi a 542 milioni di anni fa)

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L’origine dell’acqua sulla Terra

La terra ha oltre 4 miliardi e mezzo di anni.

Sembra che l’acqua sia arrivata  prevalente da parte delle comete, che altro non sono se non grandi palle di neve sporca, e di alcuni tipi di meteoriti. Secondo alcuni scienziati della però sarebbero meteoriti e asteroidi, come le condriti carbonacee, le fonti più probabili dell’acqua terrestre. L’opinione finora prevalente è che le comete abbiano avuto origine oltre l’orbita di Giove, ai margini del sistema solare, e che si siano poi spostate verso l’interno, portando notevoli quantità di materiali volatili sulla Terra. In questo caso, il ghiaccio delle comete e quello trovato nei resti di ghiaccio presenti sotto forma di silicati idrati nelle condriti carbonacee dovrebbero avere composizioni isotopiche simili. In particolare, gli oggetti che si sono formati a maggiore distanza dal Sole dovrebbero avere in media un contenuto di deuterio più elevato di quello presente nei corpi che si sono formati più vicino, e gli oggetti che si sono formati nelle medesime regioni dovrebbero avere composizioni isotopiche simili. Confrontando il contenuto in deuterio nell’acqua delle condriti carbonacee e quello delle comete è possibile dire se le meteoriti si sono formate nelle regioni che hanno ospitato la formazione delle comete.

Circa il 71 % della superficie terrestre è oggi ricoperta da acqua salata.

 

I protopianeti

Ed ecco come gli astronomi moderni ritengono che siano andate le cose. La formazione del sistema solare sarebbe avvenuta per la condensazione, in un angolo remoto della nostra Galassia, di una nube composta in massima parte da gas, idrogeno ed elio ed in minima parte da grani solidi, ghiaccio, grafite, silicati e ferro.
A causa della rotazione la nube primordiale collassò con la conseguente formazione di un corpo centrale più denso circondato da gas la cui massa era circa 1/10 della massa totale. Con il collasso si formarono nuovi vortici che frantumarono la nube in più parti dotate di un proprio movimento di rotazione.
Uno di questi frammenti in rotazione, divenne il nucleo del nostro sistema solare che, per effetto della rotazione, iniziò ad appiattirsi, assumendo la forma di un disco.
A distanze crescenti da quest’embrione di stella, intanto, gli urti fra le particelle in caduta avevano prodotto degli addensamenti locali che agivano anch’essi da centri di attrazione per la materia circostante: sono i protopianeti, abbozzi informi dei pianeti.
Le condizioni fisiche della nube primordiale erano molto diverse procedendo dal nucleo verso l’esterno. Al centro vi erano le temperature e le pressioni più elevate e, richiamate dalla maggior forza di gravità, le particelle più grandi e pesanti. Verso la periferia, forza di gravità e temperatura decrescevano, il gas era più rarefatto, i grani solidi più piccoli e leggeri.
Il centro del disco divenne il punto di attrazione di particelle solide e gassose che provocarono il continuo aumento della temperatura e della pressione ed diedero origine al Sole.
Nel centro di questa nube primordiale si accumulò infatti una quantità di materia densa e calda che ben presto superò i parametri critici per l’avvio della reazione nucleare di fusione dell’idrogeno in elio. I corpi che raggiungevano una certa massa iniziavano intanto ad attrarre i gas e le polveri contenute nella zona gassosa, accrescendosi sino allo stato attuale. La radiazione prodotta dal Sole nascente, a seguito dell’alta temperatura sviluppatasi per la contrazione gravitazionale, arrestò il processo di accrescimento dei pianeti eliminando il gas della nube residua.
Le alte temperature raggiunte nella zona gassosa più prossima al Sole sono state la causa della dispersione degli elementi più leggeri e volatili, come l’idrogeno e l’elio. Si poterono formare quindi protopianeti di massa minore e formati essenzialmente da elementi pesanti, come il ferro, caratterizzati da una massa minore ma con con maggiore densità.

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Ebbero così origine due famiglie nettamente distinte di pianeti:

a) pianeti terrestri. In ordine di distanza dal Sole, i primi quattro (Mercurio, Venere, Terra e Marte), privati degli elementi più volatili dalla radiazione solare, sono costituiti d’ammassi solidi ad alta intensità (4-5 grammi a centimetro cubo) e piccole dimensioni molto simili (raggi compresi tra 2500 e 6000 chilometri)
b) pianeti gioviani. I successivi quattro pianeti (Giove, Saturno, Urano e Nettuno), hanno potuto accrescersi utilizzando, oltre alle particelle solide più pesanti, abbondanti quantità di gas e ghiaccio per cui sono caratterizzati da bassa densità media e da grandi dimensioni. Per le loro caratteristiche sono detti giganti gassosi o di tipo gioviano. Hanno raggi che vanno dai 26.000 chilometri di Urano e Nettuno ai 60.000 di Saturno ed agli oltre 70.000 di Giove. Sono in gran parte fluidi, con densità nettamente minori di quelle dei pianeti terrestri. Tutti i pianeti gassosi sono circondati da anelli; solo quelli di Saturno, però, sono così splendenti da essere visibili chiaramente anche dalla Terra. Essi, infatti, sono quasi completamente costituiti da cristalli di ghiaccio d’acqua o ne sono ricoperti, per cui, la luce del Sole è in gran parte riflessa tanto da renderli visibili, nonostante il loro spessore non superi il chilometro.

Lo sviluppo del sistema solare

Circa 5 miliardi di anni fa…

il cosmo aveva cominciato ad assumere l’aspetto attuale e tutto era pronto per la nascita del Sistema Solare.

Il Sole, con tutti i corpi che gli ruotano attorno, costituisce il sistema solare. Sulla sua origine abbiamo tre teorie:

1)  Teoria mareale
Nel 1745 Georges Louis Leclerc  elaborò una teoria secondo la quale i pianeti si sarebbero formati dopo il passaggio di un corpo di grande massa che, transitando nei pressi del Sole, gli avrebbe strappato della massa, poi raccoltasi in una specie di filamento a forma di sigaro; spezzatosi in vari frammenti poi condensatisi, esso avrebbe dato vita ai pianeti ed ai satelliti.

2)  Teorie catastrofiche
Nel XIX secolo vennero elaborate le cosiddette teorie catastrofiche, secondo le quali il sistema solare si sarebbe formato successivamente all’origine del Sole dalla materia che quest’ultimo avrebbe espulso a seguito dell’impatto con una cometa o addirittura con un’altra stella.

Le teorie mareali e catastrofiche, tuttavia, non erano in grado di spiegare molte caratteristiche del sistema solare, ed erano legate all’aleatorietà di eventi disastrosi su larga scala, che oggi sappiamo essere rarissimi.

3)  Teoria nebulare o di Kant-Laplace
L’ipotesi che tutto abbia avuto origine da una materia primordiale concentrata in una nebulosa di gas e polveri fu formulata per la prima volta da Cartesio nel 1644, ma le prime teorie scientifiche che andavano in questo senso furono elaborate nel 1755 dal filosofo tedesco Immanuel Kant(1724-1804).
Secondo la teoria nebulare di Kant, il Sole ed il sistema solare si sarebbero formati a seguito della condensazione di una grande nube di gas in rotazione.
Nel 1797, indipendentemente dall’opera di Kant, Pierre Simon marchese di Laplace spiegò l’origine del sistema solare ipotizzando che da una primitiva nebulosa dotata di un moto di rotazione si sarebbero staccati, per contrazione e raffreddamento, gli anelli esterni i quali successivamente avrebbero dato origine ai protopianeti; aggregandosi sotto l’effetto della gravità, essi avrebbero originato i pianeti. Allo stesso modo si sarebbero formati i satelliti, la cui origine sarebbe derivata dagli anelli staccatisi dalla superficie dei pianeti, o da protopianeti “sopravvissuti”.

L’accettazione di una teoria o dell’altra prevede diversi modelli di universo. Secondo la teoria nebulare, infatti, la formazione di un sistema solare è la naturale conseguenza della formazione delle stelle, e quindi i sistemi solari sarebbero diffusi ovunque, non solo nella nostra Galassia, ma in tutto l’Universo. L’incontro di due stelle è invece un evento raro ed occasionale, e la formazione di un sistema solare sarebbe raro se non addirittura unico nell’Universo. Le recenti osservazioni di sistemi solari in orbita attorno alle stelle vicine danno ragione alla teoria di Kant-Laplace, e questo modifica la nostra posizione nel cosmo. Noi infatti non esistiamo su di un pianeta nato in seguito ad un evento straordinario, ma su di un corpo come ce ne sarebbero moltissimi altri nell’infinità dei cieli; non solo non siamo dei privilegiati, dunque, ma potremmo anche non essere neppure soli.