Dal proliferare delle viti selvatiche si passò, nel Vicino Oriente (ove la stanzialità dei popoli è stata molto più precoce) iniziando dal V millennio a.C., alla domesticazione della vite, considerando la bontà e la quantità dei frutti ricavati. Come la coltura dell’ olivo, anche quella della vite arrivò nel sud dell’Italia dalla penisola greca nell’arco del II e I millennio a.C. Soprattutto in Magna Grecia, in Etruria e nelle grandi isole la viticoltura in pochi secoli da sporadica divenne la componente base della civiltà della vite e dell’olivo. Nel mondo etrusco il vino era essenzialmente consumato dai ceti aristocratici e già veniva indicato con il termine “vinum”. In età romana questa bevanda si afferma pienamente, anche se la qualità variava molto. Vi era un vinello inacidito ottenuto dal passaggio dell’ acqua sulle vinacce dopo la pigiatura; la “posca” che era una sorta di vino inacetito utilizzato dalle truppe e fu questa la bevanda offerta a Gesù sulla croce dei soldati romani; la “sapa”: mosto cotto; il “mulsum” vino con miele.

In età romana tardo-antica l’uso del vino era così generalizzato da risultare normale anche tra gli schiavi. Dopo la caduta dell’Impero Romano la coltura della vite si ridusse, ma fu il cristianesimo che si preoccupò di salvaguardare quanto restava della viticoltura tardo-antica, infatti proprio il vino è l’elemento che si trasforma nel Sangue di Cristo. Ciò spiega perché tale coltura si diffuse capillarmente in età medievale, quando la necessità di disporre di vino per le funzioni liturgiche si rendeva indispensabile. Con l’avanzare dell’età medievale, in specie dopo il Mille, e poi con l’età dei comuni, si ha la piena affermazione della vite e del vino in Italia. Il consumo del vino divenne sempre più popolare e generalizzato, al punto che, tra ‘200 e ‘300, se ne aveva un consumo di circa un litro procapite al giorno. Questo era dovuto: alla mancanza di bevande alternative (non potabilità dell’ acqua), all’apporto calorico del vino, alle qualità terapeutiche (il vino era una sorta di rimedio per tutti i mali), non ultimo all’effetto euforico che ingenerava.

 

LAVORI DEL MESE

Alla fine del mese di settembre aveva luogo la vendemmia. La giornata iniziava di buon mattino; i vendemmiatori forniti di canestri procedevano a raccogliere i grappoli che venivano posti nei bigonci. Questi erano dei recipienti non molto alti e con due fori ai Iati attraverso i quali era inserita una pertica per il trasporto a spalla. Nei luoghi impervi i bigonci venivano trasportati fino al carro con la “fortarella” condotta a mo’ di portantina da due addetti, perché questo sistema offriva maggiore stabilità durante il trasporto. Messi sul carro, i bigonci pieni di grappoli giungevano sino alla cantina dove l’uva si vuotava nel canale o in una tina sufficientemente capiente. Le uve venivano pigiate con i piedi da due o più persone in modo da spremere i chicchi facendone uscire il succo. Il mosto così ottenuto si lasciava in botti per la fermentazione. I tralci e le vinacce rimanenti venivano ulteriormente pressati nello “strettoio” (torchio), formato da una pressa con mezzelune di legno e da una vite senza fine azionata da due persone. Anche il succo così ottenuto veniva aggiunto nelle botti con il mosto, per una comune fermentazione.

 

MOSTACCIOLI

Questa è una tra le ricette esistenti dei dolci preferiti da san Francesco. 400 g. di farina; 300 g. di miele; 400 g. di mandorle spellate; la scorza grattugiata di 2 arance; 4 albumi; mosto cotto quanto basta per amalgamare; 1 cucchiaino di cannella in polvere; 1 cucchiaio di burro; sale.

Tritare le mandorle, mescolarle con il miele e la scorza d’arancia. Aggiungere la farina, il sale, il lievito e tanto mosto cotto sufficiente ad ottenere una pasta consistente. Stendere la pasta ottenuta con il matterello ed ottenere dei biscotti della grandezza di un dito. Lasciare in forno per un quarto d’ora a 200 gradi.