Essere genitori nel nuovo millenio è un compito tutt’altro che semplice, non solo per motivi “logistici”, legati al lavoro che rispetto alla durata di una giornata ha una rilevanza notevole, ma anche per motivi più legati alla consapevolezza e all’attenzione verso i bambini e le bambine, che è ovviamente un’attenzione importante, che spesso però grava nuovamente sulle spalle dei genitori e, diciamocelo, spesso sulle mamme piuttosto che sui papà.

Anche se la situazione pare oggi essere in miglioramento riguardo la collaborazione e la suddivisione degli incarichi nella coppia, molto resta da fare per supportare realmente e concretamente le madri nella gestione della famiglia.

A differenza di tutte le altre “professioni” e “mansioni”, che si possono apprendere a seguito di una formazione professionale o l’approfondimento di teorie e pratiche sui manuali, non esiste nulla che “insegni ed educhi” alla professione di genitori. Ecco la prima difficoltà. E l’aspetto che fa riflettere è che spesso tutti sanno esattamente come il genitore con cui si sta parlando dovrebbe comportarsi, un po’ come dire “siamo tutti professori di educazione con i figli degli altri”, ma non è di questo che un genitore ha bisogno.

A seconda della diverse fasce d’età del bambino e della bambina il genitore avrà bisogno di aiuti di diversa natura:

  • Supporto concreto (gestione della casa, preparazione dei pasti, aiuto nella gestione del bambino) nei primi mesi di vita del neonato. In questa fase infatti il tempo libero a disposizione della mamma è sempre poco, essa viene completamente assorbita dalla relazione con il suo “cucciolo umano”.
  • Con l’età prescolare potrebbe essere utile un supporto più gestionale del bambino o della bambina. Siamo una società in cui entrambi i genitori spesso devono o scelgono (e non va mai giudicata una scelta personale!) di lavorare. Rispetto ad un tempo, in cui si diceva che un bimbo era figlio della comunità, viviamo un contesto in cui c’è molto più individualismo e diciamoci la verità, le strutture a supporto della famiglia e dei genitori non sono in quantità ed in modalità sempre rispondenti alle esigenze reali della famiglia. Quando il bambino o la bambina si ammala o durante le festività, per esempio, le scuole e gli asili sono chiusi, (e non è una critica a queste strutture!), mancano però strutture alternative che permettano ai genitori di continuare la loro attività se per esempio lavorano anche nei periodi festivi.
  • Durante l’età scolare continua ad essere importante il supporto alla gestione del figlio o della figlia e magari anche l’attenzione ai compiti scolastici, alle attività richieste dal sistema scolastico.
  • Con l’adolescenza invece potrebbe essere utile supportare il genitore che si trova a gestire le fatiche di un “momento di passaggio” così delicato, camminare nella “terra di mezzo” non è un percorso semplice, ecco perché avere momenti di decompressione per il genitore (e spesso per la mamma).

Un aspetto importante che è già emerso è comprendere che un genitore già di per sé spesso si sente “sotto giudizio”, anche se l’ambiente circostante magari non ha nessuna intenzione di sottoporlo “a processo”. Questo succede perché qualsiasi genitore vuole il meglio per i propri figli e questo meglio passa dalla propria capacità di essere “buoni genitori”.

Già nella definizione “buoni” genitori è presente il primo grande giudizio. Cosa significa essere “buoni” genitori nella realtà? Quali caratteristiche ci connotano come “buoni” genitori? Quali canoni si valutano?

E’ una tematica fondamentale. Come spesso dico ai genitori che incontro nei miei percorsi pedagogici: “allontanatevi dall’idea di essere buoni genitori”! Cercate di essere “genitori consapevoli”, è molto diverso. Già le teorie sull’attaccamento di Donald Winnicot (stiamo parlando degli anni Sessanta del Novecento) allontanano il concetto del bisogno di essere “perfetto del genitore”, parlano che serva essere un genitore sufficientemente buono e codificano questa capacità genitoriale nel permettere al bambino di esprimere le sue angosce, tollerarle e contenerle senza angosciarsi a sua volta: in questo modo si ha la possibilità di restituire al figlio le sue emozioni, filtrate dal contenimento e bonificate.

Allontaniamoci dall’idea di dover essere “perfetti”, anzi, sottolineiamo che i bimbi e le bimbe hanno bisogno di vivere proprio l’imperfezione genitoriale, che deve essere consapevole e condivisa, non negata dall’adulto. Solo in questo modo il bambino o la bambina accetteranno i propri limiti, le proprie difficoltà, le proprie fatiche.

Un’altra caratteristica importante che un genitore deve avere è la “centratura”, intesa come consapevolezza di sé, delle proprie emozioni, anche dei propri limiti, o, come mi piace chiamarle, delle proprie zone d’ombra, che non vanno sempre risolte tutte, ma vanno viste, accolte, accettate. Un genitore centrato è un genitore in grado di essere di supporto e di accompagnare il bambino e la bambina nel viaggio verso il diventare grandi.

Va inoltre sottolineato che il termine “educare” ha un significato etimologico fondamentale, esso deriva da “ex-ducere” ossia “tirare fuori”. Ecco, il termine educare non ha il significato di instillare conoscenza, il movimento non è dall’esterno all’interno, è opposto. Educare significa “far emergere”, favorire la manifestazione di ciò che un individuo (di qualsiasi età) è. Ecco perché, come dico spesso, educare ha il significato fondamentale di “condurre il bambino e la bambina lasciandosi condurre dagli stessi”.

Condurre è fondamentale, si conduce con la dolcezza e la fermezza su alcuni punti cardine, le regole, che non devono essere infinite, sono poche, chiare e condivise.

Lasciar emergere il figlio non significa lasciarlo sempre e costantemente libero, allo stato selvaggio, in modo che possa esprimersi anche in maniera non consona. Quella non è educazione. Non dobbiamo confondere la libertà di essere con la maleducazione. Un mondo sociale ci impone di saperci relazionare con l’ambiente e le persone che ci circondano in maniera ecologica ed armonica e questo passa attraverso l’apprendimento di regole sociali che non hanno il compito di “bloccare” la crescita del bambino e della bambina, ma di accompagnarla.

Dal punto di vista evocativo l’immagine del genitore che educa è quella di accompagnare il proprio figlio o figlia lungo un sentiero, lasciandolo libero di muoversi e di camminare o correre. Questo sentiero deve però essere delimitato ai lati e questo è il compito del genitore. Dare la possibilità di essere e manifestarsi in un contesto protetto, attraverso le regole, l’autorevolezza (che non è autorità) e la centratura del genitore.

Lasciare liberi un bimbo o una bimba senza alcuna delimitazione nel sentiero può essere rappresentato come donare loro un aereo senza che sappiano come pilotarlo, senza aver loro trasmesso le modalità di volo… Non va bene!

Essere genitori significa accompagnare i propri figli in un viaggio che permetta loro di lasciar spuntare le ali e rafforzarle, affinché da grandi siano in grado di sostenere i propri voli. Questo allenamento “al volo e alla vita” passa inevitabilmente dal cadere e dal rialzarsi, insieme.

Vi lascio una meravigliosa citazione di Janus Korczak, che credo faccia riflettere ed apra al proprio modo di essere adulti…

“Adulto è colui che ha preso in carico il bambino che è stato, ne è diventato il padre e la madre.

Adulto è colui che ha curato le ferite della propria infanzia, riaprendole per vedere se ci sono cancrene in atto, guardandole in faccia, non nascondendo il bambino ferito che è stato, ma rispettandolo profondamente riconoscendone la verità dei sentimenti passati, che se non ascoltati diventano, presenti, futuri, eterni.

Adulto è colui che smette di cercare i propri genitori ovunque, e ciò che loro non hanno saputo o potuto dare.

E’ qualcuno che non cerca compiacimento, rapporti privilegiati, amore incondizionato, senso per la propria esistenze nel partner, nei figli, nei colleghi, negli amici.

Adulto è colui che non crea transfert costanti, vivendo in un perpetuo e doloroso gioco di ruolo in cui cerca di portare dentro gli altri, a volte trascinandoli per i capelli.

Adulto è chi si assume le proprie responsabilità, ma non quelle come timbrare il cartellino, pagare le bollette o rifare i letti e le lavatrici.

Ma le responsabilità delle proprie scelte, delle proprie azioni, delle proprie paure e delle proprie fragilità.

Responsabile è chi prende la propria vita in carico, senza più attribuire colpe alla crisi, al governo ladro, al sindaco che scalda la poltrona, alla società malata, ai piccioni che portano le malattie e all’insegnante delle elementari che era frustrata e le puzzava il fiato.

Sembrano adulti ma non lo sono affatto.

Chi da bambino è stato umiliato, chi ha pensato di non esser stato amato abbastanza, chi ha vissuto l’abbandono e ne rivive costantemente la paura, chi ha incontrato la rabbia e la violenza, chi si è sentito eccessivamente responsabilizzato, chi ha urlato senza voce, chi la voce ce l’aveva ma non c’era nessuno con orecchie per sentire, chi ha atteso invano mani, chi le mani le ha temute.

Per tutti questi “chi”, se non c’è stato un momento di profonda rielaborazione, se non si è avuto ancora il coraggio di accettare il dolore vissuto, se non si è pronti per dire addio a quel bambino, allora “l’adultità” è un’illusione.

Io ho paura di questi bambini feriti travestiti da adulti, perché se un bambino ferito urla e scalcia, un adulto che nega le proprie emozioni è pronto a fare qualsiasi cosa.

Un bambino ferito travestito da adulto è una bomba ad orologeria.

L’odio potrebbe scoppiare ciclicamente o attendere a lungo per una sola e violenta detonazione, altri preferiscono implodere, mutilando anima e corpo, pur di non vedere.

Ciò che separa il bambino dall’adulto, è la consapevolezza.

Ciò che separa l’illusione dalla consapevolezza è la capacità di sostenere l’onda d’urto della deflagrazione del dolore accumulato.

Ciò che rimane dopo che il dolore è uscito è amore, empatia, accettazione e leggerezza.”