Camminare a piedi scalzi

Morbide, dure, di pelle, di stoffa, di gomma. Sono tante le calzature che possiamo comprare ai nostri bambini. Affidarsi al buon senso, alla marca, al materiale, è sufficiente nell’identificazione di scarpe comode e indicate per loro? E poi, quando mettergliele? Possiamo consentire ai piccoli di camminare a piedi nudi sulla sabbia, sull’erba, in casa, o nuociamo alla salute delle loro gambe e della schiena? Risponde l’ortopedico del Bambino Gesù.

IL PIEDE “IMPARA DALL’AMBIENTE”

Il piede è l’organo propriocettivo per eccellenza. La sua rappresentazione corticale nella parte sensitiva del cervello è più estesa di quella della mano stessa. Questo significa che per imparare a fare il suo mestiere, ovvero sorreggerci, il piede deve interagire con l’ambiente attraverso l’esperienza e la ricezione di stimoli sensoriali.
La prima parte del corpo con cui i bambini appena nati provano a indovinare il mondo, sono proprio i piedi. Amano indirizzarli verso la mamma e il papà, per farseli toccare, e per vivere le loro prime esperienze di contatto. Quando sono un po’ più grandi si tolgono le scarpe perché stare scalzi risulta per loro più naturale. Il piede nudo, da una parte, regala ai bambini un senso di libertà dalla costrizione di una calzatura – pantofola o scarpa –  mentre dall’altra garantisce quel contatto con l’ambiente che li circonda che ne facilita l’esplorazione e la conoscenza.

A PIEDI NUDI SULLA SABBIA

Camminare sui terreni propriocettivi, come l’erba, la terra e la sabbia, ovvero tutti quei terreni che hanno delle asperità, sono cedevoli, e pertanto mettono in difficoltà il piede, serve come momento di sviluppo corretto del piede, poiché potenzia i muscoli della gamba, che sono perlopiù cavizzanti, ovvero muscoli che favoriscono, attraverso inserzioni tendinee, il corretto sviluppo del piede.
In questi terreni, così come in casa, il consiglio è di lasciare, quando possibile, il bambino con i piedi scalzi, sempre pensando che la calzatura è una forzatura, e non è sempre indispensabile costringerli a indossarla.

tratto da www.ospedalebambinogesu.it

Giocare a scacchi, ecco perché fa bene ai più piccoli

Gli scacchi sviluppano le capacità logiche, la memoria e migliorano la concentrazione: ecco perché sono uno dei giochi più indicati durante l’età dello sviluppo e dell’apprendimento. Inoltre, sono di solito sufficienti poche lezioni per apprendere le peculiarità dei pezzi degli scacchi e poter iniziare a divertirsi con la scacchiera.

Gli scacchi: materia scolastica e disciplina sportiva

Se in Gran Bretagna, Francia e Germania gli scacchi a scuola sono una realtà e una delle materie scolastiche obbligatorie, in Italia restano per il momento solo un piacevole hobby. Gli scacchi sono un gioco molto antico (forse di origine persiana) ma incredibilmente attuale: alcuni studi hanno dimostrato come sviluppino l’intelligenza, migliorando di riflesso anche il rendimento tra i banchi di scuola.

 

In Italia, nel 2008, è stato siglato un protocollo tra la Federazione Scacchistica e il Ministero dell’Istruzione per l’introduzione degli scacchi come materia scolastica, allocando delle risorse per gli istituti che adotteranno questa misura. Non ancora quindi una materia obbligatoria, ma uno sport (sono infatti una disciplina sportiva, riconosciuta dal Coni) molto utile in campo pedagogico.

 

Come disciplina sportiva, spesso gli scacchi accompagnano per tutta la vita ed è possibile essere competitivi fin dalla giovane età. I bambini, oltre a poter giocare nei tornei assoluti, hanno un loro campionato italiano giovanile diviso in categorie (Under 8, Under 10, Under 12, Under 14 e Under 16).

 

I benefici della pratica degli scacchi

Gli scacchi hanno una funzione preventiva contro i processi di invecchiamento cerebrale e sono molto utili nell’approccio ai bambini affetti da sindrome di Asperger, autismo, iperattività e sindrome di Down.

 

Nello specifico, sono molti i benefici per i bambini che si dedicano alla pratica scacchistica:

  • Sviluppo della capacità di concentrazione;
  • Sviluppo di capacità logiche;
  • Accettazione di regole condivise;
  • Sviluppo del senso di responsabilità;
  • Elasticità mentale e sviluppo dell’autostima;
  • Miglioramento delle capacità di calcolo e di pianificazione;
  • Sviluppo della forza di volontà;
  • Sviluppo di memoria, pazienza e capacità di autocontrollo;
  • Sviluppo di capacità di coordinazione;
  • Stimolo della creatività.

 

Come avvicinare un bambino in età prescolare agli scacchi?

Per far appassionare i nostri piccoli agli scacchi è importante stimolare la nascita di un interesse spontaneo. Per farlo, esistono alcuni utili accorgimenti applicabili fin dalla tenera età:

  • Abituate il bambino ai pezzi della scacchiera: ci vorrà molta pazienza e tempo per potergli spiegare come si muovono i pezzi. Per iniziare, è importante farlo giocare con i pezzi della scacchiera e assecondarlo, anche se vuole giocarci a soldatini;
  • Giocate per terra con il piccolo: quando è il vostro turno, muovete i pezzi come si dovrebbero muovere ma senza spiegarlo al bambino o cercare di farglielo capire. Imparerà da solo, semplicemente osservando le vostre mosse;
  • Trattate gli scacchi come un qualsiasi altro gioco del bambino, non forzatelo mai con frasi come “Pensa!” o “Rifletti bene!”. È molto importante che il bambino non capisca che stiate cercando di insegnargli quel gioco a ogni costo;
  • Giocate a scacchi davanti al bambino: stimolerà la sua curiosità e voglia di conoscere meglio il gioco; e, se lo chiede, fatelo partecipare;
  • Usate scacchi di grandi dimensioni;
  • Lasciate che possa smettere quando vuole di giocare. In questo modo, vorrà giocarvi più spesso e non percepirà il gioco come una costrizione;
  • Non preoccupatevi se il bambino ha bisogno di più tempo per imparare: la velocità di apprendimento è soggettiva e assolutamente di secondo piano. Non è importante se il piccolo imparerà a giocare bene a 5, 6 o 10 anni. L’importante è che sviluppi un sincero interesse.

 

Ricordate inoltre che in rete sono disponibili diversi manuali gratuiti per l’insegnamento degli scacchi ai bambini e che molte sono le associazioni e le pagine web che dedicano un’ampia letteratura all’argomento. Quindi, con molta pazienza e volontà, è ora di iniziare a giocare!

 

A cura della redazione di MioDottore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Manipolazione delle cellule del sistema immunitario…

La tecnica di manipolazione delle cellule del sistema immunitario adottata dai ricercatori del Bambino Gesù potenzia i linfociti e li rende in grado – una volta reinfusi nel paziente – di attaccare le cellule leucemiche presenti nel sangue e nel midollo, fino ad eliminarle completamente.

I viaggi, i bambini e l’attitudine alla scoperta

Perché è importante viaggiare insieme ai bambini

Chi ama viaggiare spenderebbe tutti i risparmi in voli, escursioni e macchine fotografiche. Non vi è cosa più bella di ripensare ai propri momenti d’infanzia più belli, ripercorrendo un album fotografico con ritratti di Praga, Vienna, Cracovia, Parigi.

L’attitudine al viaggio si acquisisce e influenza positivamente. Cercheremo di spiegarvi perché.

Perché viaggiare fa bene ai più piccoli?

Cos’è l’identità di una persona?

Proviamo a definirla: il frutto della soddisfazione di bisogni (anche materiali), dei rapporti umani che si riesce a costruire e di situazioni di vita che stimolano la mente, la fantasia e la creatività.

È facile intuire come un bambino che si ricordi di viaggi e avventure che abbiano stimolato la propria creatività e la propria curiosità, possa sviluppare un’attitudine a costruire da adulto rapporti, relazioni e situazioni che stimolino la sua curiosità e che permettano di apprendere.

Ogni bambino è curioso di conoscere, di vedere cose nuove. Ogni bambino è stimolato da posti, culture, situazioni e paesaggi nuovi.

Inoltre, è importante sottolineare un fattore spesso sottovalutato dai genitori, al momento di decidere se partire o meno con i propri piccoli: i bambini sono felici di vedere i propri genitori felici.

Se il viaggio è un desiderio di papà e mamma e porta loro momenti di felicità, questa felicità accompagnerà anche i piccoli.

Quindi, quando ci si chiede se partire se si hanno figli piccoli, non bisogna preoccuparsi troppo del fatto che un bambino potrebbe trovare difficoltà in situazioni a lui poco note.

Se il genitore sente di poter badare al piccolo, il problema non è l’adattamento del bambino alle situazioni dettate dal viaggio.

D’altro canto, uno dei maggiori pregi della nostra specie è la capacità di adattarsi, in maniera pioneristica e liquida, a un’infinità di situazioni.

Il bambino reagirà bene, si adatterà, crescerà e porterà con sé una meravigliosa disposizione, che lo accompagnerà durante il suo processo di crescita.

 

Partire con i piccoli: trovare il coraggio

Se da un lato è facile immaginare come papà e mamme appassionati di viaggi possano superare i loro dubbi, organizzarsi e a partire con i propri piccoli, spesso i genitori meno appassionati o soltanto meno abituati al viaggio rinunciano per paura di causare disagi ai propri bambini.

A loro, bisogna ricordare un semplice assunto: rinunciare ai propri desideri non fa bene ai propri figli. È normale che molte attività, molte abitudini siano cambiate profondamente dalla nascita di un bambino, ma non è la totale rinuncia l’atteggiamento giusto.

Bisogna trovare un equilibrio, creare una vita familiare ricca e piena di eventi e occasioni di scambio, condivisione, apprendimento. Senza rinunciare alla soddisfazione personale.

Avete paura che il piccolo possa non sentirsi a proprio agio in una camera d’albero che non è la sua, che voglia tornare a casa?

È una richiesta che potrebbe verificarsi, certo. Quando capita, però, spesso è perché non è stata data la giusta attenzione a qualche richiesta specifica del piccolo, che reagisce rifugiandosi in un ambiente che conosce, la propria cameretta. O nell’idea di quest’ambiente.

Se siete abituati a vivere una quotidianità fatta di gesti e riti spesso uguali, è normale che il bambino possa avere bisogno di essere accompagnato durante un cambio: per lui è qualcosa di nuovo e chiede il vostro aiuto.

Lo chiederà sempre meno se lo abituerete al cambio, a nuove situazioni… Ai viaggi.

 

Viaggiare con i bambini: dove andare?

L’unico criterio per scegliere la meta adatta a un viaggio con i più piccoli è il buon senso: considerate l’età del bambino, il carattere e trovate una soluzione che venga incontro a questi fattori ma anche ai vostri interessi.

Non esistono regole, anche grazie a quella capacità di adattamento dell’essere umano di cui abbiamo parlato prima.

 

Come posso far appassionare un bambino ai viaggi?

Per prima cosa, appassionando voi stessi. La passione non può essere recitata: se non avete mai viaggiato ma, poco a poco, comincerete ad appassionarvi ai viaggi e alla scoperta, il piccolo sarà curioso, sarà stimolato a vivere l’esperienza.

Inoltre, potete raccontargli storie, far vedere libri illustrati o video sui luoghi che visiterete. Per poi dirgli: “Vuoi andare a vedere?”.

 

Viaggio con mamma e papà: un momento di crescita

Le vacanze con la propria famiglia sono un vero e proprio momento pedagogico, di crescita e apprendimento. Un momento fuori dalla quotidianità, un modo per affinare la propria capacità di cucire relazioni e di imparare nuove cose.

“Viaggiare può costituire un’importante occasione di apprendimento per i bambini, i quali possono sperimentare attività nuove e stimolanti con i propri genitori, migliorando le proprie capacità sociali e cognitive.

Esplorare situazioni di vita inusuali può consentire ai più piccoli di mettersi alla prova, aumentando gradualmente il proprio livello di autonomia dal genitore, il quale costituisce la “base sicura” del bambino, come affermato da Bowlby nel 1969: la persona su cui il bambino fa affidamento, ovvero la figura di attaccamento che si prende cura del piccolo, è quella che “fornisce la sua compagnia assieme a una base sicura da cui operare”.

Quando il bambino si sente al sicuro si concede di allontanarsi dal genitore, per esplorare l’ambiente circostante. Quando avverte un pericolo di qualsiasi tipo egli interrompe l’esplorazione per tornare al sicuro dalla figura di attaccamento.

È importante ricordare sempre che il genitore costituisce un fondamentale riferimento sociale per il figlio, e che questi farà sempre riferimento a lui per capire come orientarsi nel mondo e che comportamento adottare nelle situazioni nuove.

Viaggiare può diventare un’occasione di sviluppo a trecentosessanta gradi per i più piccoli. Per aiutarli nella transizione tra l’ambiente domestico e quello nuovo del luogo di villeggiatura è utile mantenere degli aspetti di continuità con la vita quotidiana e affettiva del bambino, come le abitudini alimentari, i ritmi del sonno e gli oggetti importanti per il piccolo, in grado di tranquillizzarlo e farlo sentire al sicuro, come un peluche o una copertina.

In questo modo il viaggio si trasformerà anche per i più giovani in una stimolante occasione di crescita e di scoperta, senza nostalgia per le abitudini quotidiane e senza la paura di sperimentare qualcosa di nuovo.” Dott. ssa Valeria Colasanti, Psicologa

 

In passato, un momento fondamentale nella vita dei giovani aristocratici europei e di tutto il mondo, era il Grand Tour, un viaggio nel Continente Europeo che spesso durava mesi e talvolta anni.

Si trattava di una tappa fondamentale nel percorso educativo dei giovani rampolli della nobiltà, che accompagnava la formazione accademica per affinare abilità e disposizioni, come la capacità di far fronte agli imprevisti, la capacità di improvvisazione, la conoscenza di altre lingue, la capacità di ambientarsi in contesti diversi.

In un certo senso, si trattava anche di formazione politica.

 

In conclusione

Non immaginate neanche quanto bene possiate fare ai vostri piccoli, portandoli con voi in viaggio. Fatelo con consapevolezza, organizzandovi per tempo, cercando le strutture giuste e luoghi che non causino disagi eccessivi ai piccoli. Ma fatelo senza paura: regalerete ai vostri piccoli molto di più di una semplice esperienza, una meravigliosa attitudine alla scoperta.

 

Articolo a cura della redazione di MioDottore, Commento a cura della Dott. ssa Valeria Colasanti.

I bambini e gli sport invernali

I bambini e gli sport invernali: a che età iniziare, come educarli a una pratica corretta

Forse per l’atmosfera, forse perché possono essere praticati in coincidenza delle festività, forse perché evocano un mondo fiabesco, gli sport invernali (sci, slittino, pattinaggio sul ghiaccio, snowboard) piacciono molto ai bambini. Spesso, partire per la settimana bianca è un’esplicita richiesta dei più piccoli.

Lo sci
Lo sci è lo sport invernale per eccellenza. Si tratta di un’attività sportiva cui si può essere avviati anche fin dalla più tenera età (a partire dai 18 mesi), se si insegna adeguatamente al bambino l’attività motoria di scivolamento in piano.

A partire dai 3/4 anni, può invece essere iniziata e insegnata l’attività di sci in discesa (il senso dell’equilibrio è ancora in via di sviluppo).

Lo sci è uno sport che stimola uno sviluppo equilibrato del fisico ed è molto utile per la coordinazione dei movimenti (oltre a essere molto divertente); inoltre, i più piccoli sono più portati degli adulti a superare in modo facile e immediato il timore verso le pendenze e per il senso di vuoto.

Naturalmente, proprio a causa di un senso dell’equilibrio ancora in via di sviluppo, è importante avviare i bambini a questa disciplina in modo graduale, facendoli seguire da un maestro competente.

È infatti fondamentale imparare a superare le cadute senza viverle come un fallimento (sono inevitabili anche per gli sciatori più esperti) e abituarsi alle fredde temperature.

Infine, importante è imparare a fare i giusti movimenti durante la pratica dello sci e dotare il piccolo dell’attrezzatura adeguata (casco protettivo, scarponi comodi e della giusta misura, sci sicuri, giacconi, guanti e occhiali che garantiscano la giusta protezione contro il freddo e i raggi ultravioletti).

 

Lo slittino
Lo slittino e il bob sono l’ideale per i bambini più piccoli, perché spesso godono di aree dedicate in prossimità delle piste da sci, con dei supervisori: i bambini possono così divertirsi all’interno di zone in cui non vi è il pericolo di contatto e/o incidente con sciatori adulti. Nonostante la maggiore sicurezza e la minore pericolosità, è comunque consigliato l’utilizzo del caso protettivo per i più piccini.

Pattinaggio
Il pattinaggio è adatto sia ai bambini che alle bambine e vi si può dedicare a partire dai 6 anni circa, quando i piccoli hanno consolidato il senso dell’equilibrio e la coordinazione. Inoltre, a quest’età i bambini sono più propensi all’ascolto e alla comprensione degli insegnamenti.

Si tratta di uno sport che comporta un grande impegno ma che sa regalare soddisfazioni e gratificazioni anche se, pure in questo caso, le cadute sono all’ordine del giorno: è quindi importante insegnare al bambino a reagire nel modo giusto a una caduta.

Bisogna quindi rivolgersi a istruttori qualificati e competenti, coprire il piccolo in modo adeguato e indossare protezioni con imbottiture per ginocchia e gomiti.

I benefici?

  • Rinforza la muscolatura dell’addome e degli arti inferiori;
  • Migliora l’equilibrio e la coordinazione dei movimenti;
  • Aumenta l’autostima;
  • Migliora i riflessi;
  • Migliora la funzione respiratoria;
  • Fa bene al cuore.

 

Hockey su ghiaccio

Non ancora molto praticato in Italia, si tratta di uno sport comunque molto divertente che si può iniziare a praticare a partire dai 6-7 anni.

È importante non avviare i bambini alla pratica di questo sport troppo precocemente, perché l’hockey richiede infatti non solo la capacità di comprendere e applicare delle regole abbastanza complicate, ma anche una preparazione atletica adeguata.

È uno sport che apporta numerosi benefici (migliora il metabolismo, sviluppa la muscolatura delle gambe ma anche delle braccia, migliora la respirazione e la coordinazione dei movimenti).

 

Snowboard
Lo snowboard attira moltissimo i bambini, tuttavia si tratta di un’attività sportiva complessa cui è importante far avvicinare i bambini al momento giusto.

Molti genitori si domandano quale sia l’età giusta per permettere al proprio piccolo di praticare lo snowboard, per evitare infortuni e problemi dovuti alla precocità. Di fatto, non esiste una età che rigidamente possa essere definita “giusta”.

Diciamo che è però consigliabile che si abbiano i primi contatti con lo snowboard non prima dei 4 anni di età (soprattutto in quei contesti familiari in cui genitori, fratelli o sorelle più grandi si dedicano a questo sport).

Le prime lezioni, quando il bambino inizia in tenera età, dovranno essere tenute in forma di gioco per spingere il piccolo a prendere confidenza con il mezzo e capire come utilizzarlo in equilibrio. Il bambino imparerà e seguirà l’istruttore, se si divertirà durante gli esercizi e le lezioni.

Anche in questo caso, è fondamentale utilizzare un caschetto protettivo e rivolgersi a un istruttore qualificato, che sappia spiegare e far acquisire al piccolo i movimenti giusti, rispettandone i tempi di apprendimento.

I benefici? Fa bene al cuore, sviluppa equilibrio e muscolatura (specialmente degli arti inferiori), migliora la respirazione, la coordinazione e l’equilibrio e, soprattutto, tanto divertimento!

 

A cura della redazione di MioDottore.it.

Gli animali domestici migliorano la salute dei nostri bambini?

I bambini amano gli animali e gli animali i bambini, si sa. Ma vivere a contatto con un animale domestico aiuta i bambini a crescere più sani?

Secondo alcuni recenti studi, i bambini a contatto con animali domestici sviluppano meno infezioni respiratorie rispetto ai bambini che non convivono con un animale domestico.

Un esempio è lo studio condotto da un team di ricercatori dell’ospedale universitario finlandese di Kuopio su un campione di 400 bambini con meno di un anno di età: per un anno, i genitori dei pargoli hanno consegnato ai ricercatori lo stato di salute dei loro figli.

Alla fine della raccolta dei dati e del periodo di osservazione, i bambini a contatto con animali domestici hanno evidenziato una riduzione del 30% di patologie come rinite, tosse e respiro sibilante e una riduzione della metà della probabilità di contrarre infezioni alle orecchie.

Oltre ad ammalarsi meno, i bambini che vivono con animali domestici hanno un bisogno minore di usare antibiotici: questo perché, secondo lo studio, il livello immunitario dei bambini è più alto se l’animale è presente nell’ambiente domestico per almeno 6 ore al giorno (diminuisce se l’animale è tenuto poco a contatto con il bambino o se vive all’esterno dell’ambiente domestico).

I benefici della presenza di un animale domestico in casa contro la genesi allergica sono comunque ancora largamente discussi: non vi è ancora comune accordo all’interno della comunità scientifica sul fatto che tale continuo stimolo immunitario possa aiutare a sviluppare una sorta di scudo immunitario contro le più comuni patologie allergiche.

Altri studi hanno evidenziato inoltre come i bambini che possiedono un cane abbiano un’incidenza minore di obesità e peso in eccesso, a seconda anche dell’impegno profuso per occuparsi dell’animale.

Esistono anche studi come quello dello psicologo Jeremy V. Miles e del suo team per la Rand Corporation, per cui non vi è alcun legame tra lo stato di salute mentale e fisica dei bambini e la presenza di un animale domestico durante la loro crescita.

L’indagine condotta da Rand e dai suoi colleghi ha coinvolto più di 2000 bambini con animali domestici e circa 3000 senza, evidenziando come i bambini che vivono in famiglie con animali hanno un miglior stato di salute generale, pesano un po’ di più e spesso si dedicano allo sport, al contrario dei bambini in famiglie senza animali domestici.

Allo stesso tempo, però, si è dimostrato più elevato il numero di casi di sindrome da deficit di attenzione (ADD) e di sindrome da deficit di attenzione/iperattività (ADHD). Aggiungendo un maggior numero di variabili nel condurre l’analisi, i ricercatori hanno osservato la progressiva scomparsa della correlazione tra presenza di animali in casa e miglior stato di salute.

Secondo un recente rapporto Eurispes, circa il 33% delle famiglie ha in casa un animale domestico: l’amore per gli animali occupa un posto importante all’interno del nostro tessuto sociale. Come facilmente immaginabile, l’animale domestico più presente nelle case degli italiani è il cane (presente nel 63% delle case che hanno un animale domestico) seguito dal gatto (41%).

Ma qual è l’animale più adatto per i nostri bambini?

“Mamma, voglio un cane!”

 Quante volte le mamme e i papà hanno sentito questa frase! La buona notizia, è che il cane è senz’altro l’animale più adatto a convivere con un bambino, grazie anche alla storia millenaria di domesticazione che li ha resi capaci di un’ottima comunicazione e interazione con l’uomo.

Un animale domestico fa veramente bene ai nostri figli?

Se non dal punto di vista della salute in senso stretto, di certo la presenza di un animale tra le mura domestiche è fondamentale per “ampliare” la mente del bambino, facendogli capire e percepire che oltre agli esseri umani esistono altri esseri viventi in grado di comunicare emozioni.

 Grazie alla convivenza con un animale il bimbo acquista e fa proprio il concetto di diversità e sviluppa la capacità di empatizzare, anche con le persone.

Certo, devono essere sviluppate regole certe di convivenza e l’approccio tra il bambino e l’animale deve essere guidato nel modo corretto. I bambini piccoli, infatti, non provano affatto empatia (non riescono a provarne nemmeno nei confronti di altri bimbi) e quindi possono essere attratti da un animale più per le fattezze fisiche, senza comprenderne a fondo le esigenze fisiche ed emotive.

In sintesi, l’animale è considerato inizialmente una sorta di giocattolo e le sue reazioni potrebbero non essere sempre positive.

Per questo, il rapporto con l’animale deve essere guidato dall’adulto: dovrà far conoscere poco a poco il cane, il gatto o altri animali al piccolo. Anche l’animale imparerà a riconoscere l’odore del piccolo, il suo incedere, la sua voce in modo graduale. Arriveranno così piano piano i primi contatti e le prime interazioni fisiche.

Il primo incontro tra un bimbo e un cane deve essere gestito al meglio: si può far annusare il bambino al cane, lasciandoli l’uno accanto all’altro per un po’ di tempo. L’adulto deve premiare i comportamenti positivi dell’animale e punire quelli negativi (come ringhiare), in modo da scoraggiarli e bloccarli con tempestività.

Nel caso dei bambini molto piccoli, si può ricorrere all’utilizzo di pupazzi e peluche per mostrare loro come accarezzare nel modo giusto l’animale, senza fargli del male.

Dai 4 anni in poi, si può iniziare a responsabilizzare di più il bambino. Bisogna rendere chiaro l’animale non è un giocattolo ma che deve essere amato e rispettato, senza tirargli la coda o infastidirlo.

È importante che il bambino capisca che anche gli animali hanno bisogno di momenti di tranquillità, senza giocare e senza stare in compagnia.

Devono essere chiarite le regole anche per giocare: il bambino non deve “rubare” il giocattolo al cane o altri oggetti, ma deve essere abituato allo scambio. Allo stesso modo, l’animale deve essere educato allo scambio in modo che non porti via i giochi al bambino.

Infine, gli animali e i cani giovani in particolare, hanno la tendenza a ingerire molte cose: questo è un atteggiamento su cui l’adulto deve vigilare, scoraggiandolo nel modo corretto.

Gli animali domestici aiutano dunque lo sviluppo dei nostri bambini?

 “Sono diversi i contributi scientifici in merito ai benefici psico-fisici che un animale domestico può portare nella vita della famiglia che lo ospita.

Già dagli anni sessanta lo Psichiatra americano Boris Levinson parla di Pet Therapy. Con questo termine si intende una terapia basata sull’interazione uomo – animale. La presenza di un animale come un cane, un cavallo, un coniglio, un delfino, un gatto all’interno della tradizionale terapia con pazienti con diverse patologie al fine di  un miglioramento comportamentale, fisico, emotivo, cognitivo e linguistico.

 Il rapporto tra l’uomo e l’animale ci permette di recuperare un tipo di linguaggio che purtroppo stiamo perdendo, la nostra società è sempre più basata sulla comunicazione verbale, su una immediatezza filtrata da uno schermo o da una emotività espressa attraverso emoticons. Il linguaggio non verbale degli animali, fatto da suoni, odori, contatto corporeo, sguardi è diretto alle emozioni e ai sentimenti.

 L’uomo e l’animale sono capaci di una complessa e delicata sintonia che stimola l’attivazione emozionale, l’apertura a nuove esperienze, nuovi modi di comunicare, nuovi interessi. Gli animali non giudicano, non hanno tutte le nostre sovrastrutture cognitive, gli animali si donano totalmente, ci aiutano a socializzare, stimolano i nostri sorrisi (quindi in termini neurofisiologici nel nostro corpo aumenta la serotonina e diminuisce la produzione di cortisolo), aumentano l’autostima, ci aiutano ad abbassare le ansie e le paure aiutandoci, così, a regolare i nostri stati interni ed emotivi.

 Al di là delle applicazioni terapeutiche i bambini attraverso gli animali hanno la possibilità di vivere un’esperienza unica sperimentando emozioni fondamentali per il loro sviluppo: l’attenzione, il rispetto, il tollerare e canalizzare l’aggressività.

 È importantissimo però essere presenti nel l’interazione e aiutare i nostri bimbi gli animali a conoscersi e a entrare in relazione”, afferma la Dott. ssa Mara Mettola, psicologa e psicoterapeuta.

 Insomma, a prescindere da un ipotetico ma non ancora universalmente dimostrato effetto benefico antiallergico e anti obesità degli animali domestici, possiamo di certo affermare che gli animali fanno bene ai nostri figli: li aiutano a scoprire il mondo esterno, a sviluppare empatia e a conoscere le emozioni. Educandoli allo stesso tempo alla diversità.

A cura della redazione di MioDottore con il contributo della Dott. ssa Mara Mettola, psicologa e psicoterapeuta.

 

 

I bambini e il legame con la natura

Il rapporto tra infanzia e natura è stato oggetto dell’interesse di molti studiosi, da Rousseau a Maria Montessori. Il legame speciale che può nascere tra il bambino e la natura ha infinite potenzialità educative e spesso è stato al centro di nuove concezioni pedagogiche.

Ma cos’è rimasto di questo legame ai giorni nostri?

Qualche anno fa (2013), una ricerca condotta dalla rivista In a Bottle tra 1400 mamme italiane, ha fatto emergere un dato preoccupante: circa un bambino su 2 non ha alcuna nozione base sulla natura e non ha idea dell’origine naturale degli alimenti.

Allo stesso tempo, un altro dato preoccupante è dato dalla progressiva e costante diminuzione della fauna selvatica in vari Paesi del mondo (secondo un rapporto della RSPB, Royal Society for the Protection of Birds, circa il 60% delle specie di fauna selvatica della Gran Bretagna sono diminuite drasticamente in quanto a numero di esemplari).

I bambini che vivono in contesti urbani hanno quindi sempre meno opportunità di venire a contatto con l’ambiente e con la fauna naturale.

Far conoscere ai più piccoli l’origine naturale del cibo, degli elementi, dell’energia, il mondo animale e il legame che indissolubilmente lega l’azione umana alla salubrità del pianeta è fondamentale: è la base su cui fondare il mondo di domani, garantendo che vi siano anche in un futuro lontano delle persone che si prenderanno cura del mondo naturale e delle specie selvatiche.

Avvicinare i giovani e i bambini alla natura significa dare loro uno strumento in più per vivere in un mondo migliore.

Mai come in un mondo (iper)tecnologico come quello attuale, le azioni per mettere in contatto infanzia e natura diventano necessarie.

Il contatto con la natura e le esperienze fuori dalle mura degli edifici hanno benefici a tutti i livelli: sono istruttivi, migliorano la salute fisica e l’emotività, le abilità sociali e quelle personali, aiutano a sviluppare interessi sani e partecipativi.

Interessante a questo scopo, è anche riprendere criticamente il concetto di educazione ambientale di Maria Montessori: educazione ambientale non vuol dire solo insegnamento di nozioni sull’ambiente e sulla sua tutela, ma significa sforzo attivo per far nascere nel bambino un interesse verso l’ambiente.

Fare in modo, cioè, che si senta parte di un ambiente vivido, vivo, dinamico e pulsante.

Il bambino non deve imparare didascalicamente nozioni sulla natura, ma imparare direttamente dalla natura grazie alla propria esperienza: i legami tra le cose, la pazienza, la curiosità, la perseveranza.

Un’ottima iniziativa per avvicinare i bambini al mondo della natura sono I campi estivi del WWF: si tratta di un progetto che prevede programmi per bambini, adolescenti e per famiglie. Un modo per imparare e divertirsi in compagnia, in un contesto sano, stimolante e istruttivo.

 Ecco altre proposte per avvicinare i bambini alla natura in modo divertente:

  • Andare alla ricerca di erbe, farfalle, insetti;
  • “Caccia all’albero”: vince il primo che trova una quercia;
  • Alla ricerca di fiori e piante: quanti ne hai trovati, di che specie;
  • Raccogliere castagne durante il periodo autunnale e preparare insieme al bambino un dolce a base di castagne;
  • Andare in un agriturismo il week-end e far scoprire il mondo degli animali delle fattorie al piccolo.. Magari, anche con una breve cavalcata su un pony 😉

Il recupero del contatto con la natura ci apre una ulteriore riflessione: come possiamo avvicinare i bambini alla natura?

In che modo la psicologia può essere d’aiuto?

Il mondo in cui viviamo è veloce, tecnologico, ci chiede sempre di fare tante cose, di farle velocemente e possibilmente di farle bene. Quante volte ci capita di essere con la testa altrove? Di non ricordarci dove abbiamo parcheggiato l’auto o se abbiamo preso una pastiglia?

A volte facciamo un’azione e dopo qualche momento non sappiamo se l’abbiamo fatta o no. Per ottimizzare i tempi, spesso siamo altrove.

 La pratica della Mindfulness ci può aiutare a essere presenti.

 Mindfulness è una parola inglese che significa consapevolezza, però in un senso specifico. Non è semplice descriverla, perché si riferisce prima di tutto a un’esperienza diretta. Jon Kabat-Zinn, uno dei pionieri di questo approccio, ci aiuta a definire questo concetto antico:

<Mindfulness significa prestare attenzione, ma in un modo particolare: con intenzione, al momento presente, in modo non giudicante>.

 Possiamo identificare la Mindfulness come un modo per coltivare una più piena presenza all’esperienza del momento, al qui e ora.

 Moltissimi sono i contributi scientifici circa i benefici derivanti dalla pratica della Mindfulness in modo continuativo (per citarne solo alcuni: riduzione dello stress e dell’ansia, regolazione emotiva, miglioramento della concentrazione).

Da diversi anni le pratiche di Mindfulness sono diventate un ottimo modo per insegnare ai nostri bambini a regolare le proprie emozioni, a essere gentili e aperti con gli altri e in particolar modo con se stessi, aumentando la sensazione di fiducia.

 Queste competenze possono essere la base per creare un legame tra i nostri bambini e la natura, affinché imparino a percepire gli odori, i profumi, i sapori, a osservare i colori del mondo che li circonda, a sentire davvero con il cuore aperto e a sperimentare la gioia di queste importanti esperienze.

 Attraverso un ascolto autentico e non filtrato da giudizi, abbandonandosi alle sensazioni che un fiore, un albero, un frutto, un prato e un lago sono in grado di regalare, si può imparare da piccoli ad avere un contatto sano con la natura.

Ciò contribuirà anche alla salvaguardia nel futuro del grande patrimonio che abbiamo e che spesso non siamo capaci di custodire.

A cura della redazione di MioDottore e con il contributo della Dott. ssa Mara Mettola, psicologa e psicoterapeuta.

CAMERETTE ECOSOSTENIBILI

L’informatica e i bambini

Al giorno d’oggi, le competenze informatiche sono una seconda alfabetizzazione. L’informatica è infatti parte della nostra vita quotidiana: software, reti e app ci consentono di portare a termine un numero imprecisato di incombenze quotidiane, lavorative e personali.

Per questo, è importante che le nuove generazioni approccino questa materia presto, fin dall’infanzia.

Come iniziare?

È sapere comune che minore è l’età, maggiore è la capacità di apprendimento. Per questo è consigliabile introdurre i bambini all’uso del personal computer fin dai 4 anni di età, mentre è meglio ritardare il momento in cui spiegare ai bambini il world wide web.

Il bambino dovrà approcciare questi temi in modo graduale e bisognerà adottare una “didattica” ludica. Partendo dalle prime azioni della catena (accensione e spegnimento del computer), passeremo all’utilizzo delle varie periferiche e, poco a poco, all’utilizzo di alcuni programmi (es. Per i più piccoli, paint. A partire dall’età scolare, word e il pacchetto Office). Non dimentichiamo di spiegare anche la funzione e l’utilizzo di memorie USB e periferiche portatili e di introdurre gradualmente (una volta acquisiti e consolidati i concetti fondamentali) il concetto di database.

Successivamente, possiamo procedere con l’insegnamento del processo di installazione e disinstallazione di programmi e dispositivi: il bambino imparerà così a concepire il computer sia nella sua parte hardware che nella sua parte software, come un mezzo cioè per effettuare azioni e per conservare dati e documenti.

I bambini e il web

Importante: qualora si decidesse di introdurre il bambino al concetto di Internet e di World Wide Web, è fondamentale che le connessioni avvengano sotto il controllo diretto e costante dell’adulto, in modo da evitare spiacevoli sorprese e proteggere il piccolo dai pericoli del mondo digitale.

Accompagnare il bambino passo passo nella sua scoperta del mondo digitale è fondamentale per la sua crescita: perché se è vero da un lato che è possibile impostare dei filtri per ridurre e limitare la possibilità che i nostri piccoli possano raggiungere informazioni e siti indesiderati, è anche vero che la presenza dell’adulto è un ottimo veicolo per far passare il messaggio di come Internet sia un veicolo di informazioni, e non un mondo a sé stante.

I padri di oggi sono la generazione di passaggio, quella che è passata dal suonare al citofono dei propri amichetti agli ultimi modelli degli smartphone: sono loro a dover insegnare ai propri figli lo status del web come mezzo e non come realtà a sé stante. In questo contesto, la presenza e il dialogo sono strumenti fondamentali: la capacità di apprendimento dei nuovi mezzi dei piccoli nativi digitali è infatti esponenzialmente più alta di quella dei trentenni di oggi. Senza una presenza e una condivisione i bambini si tufferebbero nel mondo digitale troppo velocemente e non avremmo il tempo per poter insegnare loro come filtrare i significati di ciò che trovano in rete.

A cura della redazione di MioDottore.

 

 

 

I bambini e la vista

Dai recenti studi internazionali è emerso che circa il 20% dei bambini sotto i 4 anni di età soffre di disturbi della vista. La vista di un neonato richiede anni per svilupparsi e affinarsi come  di quella di un adulto.

La formazione delle capacità visive di un bambino è quindi un processo lento, per cui è molto importante saper riconoscere eventuali anomalie ed intervenire tempestivamente, per poter porre rimedio in tempo.

Come si evolvono le capacità visive

Se nel corso del primo mese di vita, la vista del neonato può solo distinguere tra buio e luce e l’orizzonte visivo si ferma ai 30 cm, già al sesto mese il bambino è in grado di vedere e riconoscere cose lontane. Entro il quarto anno di vita del bambino, la sua acutezza visiva raggiunge lo stesso livello di quella di un adulto.

L’apprendimento e la funzione visiva sono strettamente legate tra loro, per questo la seconda evolve nel corso dei primi anni visivi e si affina lentamente.

Questo significa che impariamo a vedere in modo corretto se ne abbiamo la possibilità, per questo è indispensabile diagnosticare tempestivamente un difetto visivo per correggerlo e consentire così uno sviluppo completo delle funzionalità (come la visione tridimensionale e l’acuità visiva per lontano e vicino).

Un problema di vista diagnosticato subito, in questa età, spesso significa poter sviluppare una vista normale. È quindi fondamentale effettuare una prima visita oculistica dal medico specialista all’età di 3 anni, per individuare in tempo problematiche trattabili come:

  • Occhi troppo grandi;
  • Scorretta postura del collo e della testa;
  • Strabismo, sensazione che gli occhi non siano in asse tra loro;
  • Rotazione degli occhi senza riuscire a fissarli su un oggetto specifico;
  • Inciampare e sbattere frequentemente contro mobili ed oggetti;
  • Mal di testa ricorrente (dopo i 4 anni di età);
  • Tendenza ad isolarsi;
  • Stropicciarsi spesso gli occhi;
  • Fastidio eccessivo alla luce.

L’importanza degli stimoli visivi nei bambini e i problemi più comuni

I bambini, attraverso gli occhi, imparano e assorbono quasi il 90% del mondo che li circonda. Una mancanza o un problema in quest’ambito può avere ripercussioni non solo fisiche ma anche relazionali. I problemi visivi che più comunemente colpiscono i bambini sono:

  1. Strabismo: causa spesso l’occhio pigro e la condizione definita come ambliopia. Il bambino colpito da strabismo ha più difficoltà a sviluppare una visione spaziale, l’equilibrio e il coordinamento motorio;
  2. Ipermetropia: difficoltà nel riconoscere gli oggetti vicini, buona visione degli oggetti lontani;
  3. Miopia: difficoltà nel riconoscere gli oggetti lontani, buona visione degli oggetti vicini;
  4. Astigmatismo: irregolare curvatura della cornea che causa una vista confusa e distorta.

Gli occhiali per bambini: non più un segno di esclusione!

 Una volta, gli occhiali rappresentavano per un bambino un segno di esclusione, l’evidenza di un problema. Oggi, gli occhiali sono un accessorio spesso considerato bello ed esistono montature comode e personalizzabili su misura per i piccoli.

Riconoscere e arginare un problema di vista è dunque più facile e meno traumatico: per questo è importante che i genitori prestino attenzione a eventuali segnali di disturbi e intervengano tempestivamente. Non abbiate paura di portare il vostro bambino dall’oculista, che seguirà i vostri piccoli alla scoperta del mondo, attraverso il lungo percorso dell’evoluzione della vista.

A cura della redazione di MioDottore, con la consulenza del Dott. Raffaello Tidore, oculista e chirurgo generale.

 

 

 

La lettura dei fumetti e i bambini: uno stimolo per l’immaginazione.

“Il fumetto nasce quando l’uomo delle caverne, prima ancora che venisse inventata la scrittura, tentava di riprodurre con disegni sulle pareti di roccia, le pareti della sua dimora, quindi, le sue avventure di guerra e di caccia”

Guerrera, STORIA DEL FUMETTO, autori e personaggi dalle origini ai nostri giorni, ed. Newton Compton, Roma 1995.

 

La comunicazione attraverso le immagini risale alle notte dei tempi ed è tutt’ora una parte consistente della comunicazione stessa. L’arte come tramite per la diffusione è un’idea che risale a tempi antichi, e che durante le civiltà egizia e greca ha conosciuto particolare diffusione.

Grandi classici della Letteratura Italiana sono stati illustrati da grandi pittori, si pensi ad esempio alla Divina Commedia illustrata dal Botticelli.

La nascita del fumetto, così come lo conosciamo e lo leggiamo oggi, è avvenuta negli Stati Uniti d’America nel 1895 sul New York World grazie a una geniale intuizione di J. Pulitzer, che pensò di incrementare il pubblico con un supplemento domenicale illustrato e a colori per l’infanzia contenente le storie di YELLOW KID (fig.3) di Richard Felton Outcauld.  Da Disegno Letterario. Il Fumetto come strumento educativo.

Da quel momento, il fumetto ha conosciuto una incredibile diffusione e un impareggiabile successo. Chi non ha mai sfogliato da piccolo un fumetto della Disney (Topolino in primis) o Dylan Dog a partire dall’età adolescenziale? (Chi scrive lo legge ancora, con grande soddisfazione).

Vediamo dunque perché è importante stimolare nei bambini la curiosità verso i fumetti e facilitarne la lettura.

 

La lettura dei fumetti e i bambini: uno stimolo per l’immaginazione

Ecco perché proporre ai bambini la lettura di fumetti:

  • Come afferma Rodari ne La grammatica della fantasia – Il bambino che legge i fumetti, nel fumetto “Gli oggetti si presentano in una disposizione mutata: bisogna immaginare il percorso compiuto da ciascuno di loro dalla disposizione primitiva alla nuova. Tutto questo lavoro è affidato alla mente del lettore.
  • Un fumetto è utile per un primo approccio alla lettura, perché la lettura non si riduce alle figure e ai disegni e perché fa un continuo ricorso al discorso diretto.
  • Nei fumetti, i personaggi e le situazioni vengono caratterizzati in modo quasi immediato;
  • I fumetti sviluppano la capacità di cogliere i dettagli;

“Il fumetto è una narrazione sequenziale che unisce immagini e testo. Quando si legge un fumetto vengono coinvolte più capacità: la lettura di immagini, la lettura di testo, la capacità di mettere insieme i due linguaggi per crearne un terzo, il saper individuare la logica sequenziale che lega fatti che costituiscono la storia, l’interpretare ciò che accade tra una vignetta e l’altra, la temporalità del prima e dopo.

I fumetti sono tanti e diversi tra loro,per trama,  formato, colore, scrittura, lucentezza della pagina ecc. e fumetto non è sinonimo di facilità e non è neanche detto che tutti i fumetti vadano bene. Quando si sceglie un fumetto per bambini occorre sceglierne uno innanzitutto che parli una lingua che loro possano comprendere, che tratti di ciò che vivono loro,  delle loro fantasie o difficoltà. E’ importante che il linguaggio sia comprensibile, corretto e che non vi siano brutte parole, che sia scritto con un carattere grande e chiaro e che all’interno della nuvola ci siano poche parole, le immagini devono essere chiare e belle. La trama qualunque essa sia dovrebbe essere coinvolgente e divertente.

Le immagini da sempre trovano spazio sia in ambito scolastico che in quello della disabilità (video, foto, immagini che costruiscono storie, quelle per esempio  utilizzate nella comunicazione aumentativa/alternativa).

Questo perché l’immagine arriva più chiara e diretta al bambino. Pensiamo anche ai libretti delle illustrazioni, in cui il disegno ci risulta molto più chiaro delle parole.

Il fumetto può essere utilizzato come veicolo di messaggi importanti da far arrivare ai minori (per esempio messaggi sulla discriminazione o anche sull’educazione sessuale agli adolescenti), per spiegare argomenti difficili, come la storia e la politica ecc., per illustrare i loro disagi e come affrontarli, in modo che comprendano meglio anche se stessi e acquistino maggior fiducia nel superare l’ostacolo.

Anche bambini con Disturbo di Apprendimento potrebbero giovarsi di fumetti per apprendere meglio alcuni argomenti scolastici e la storia per immagini e testo potrebbe essere utile per avvicinare  alla lettura anche  i più piccoli.

Il fumetto pertanto se scelto bene può essere uno strumento molto utile in diversi ambiti oltre quello del divertimento e del passatempo!”

 

 

 

 

Corsi di fumetto per bambini, un esercizio per scoprire il mondo e se stessi

Quando i bambini disegnano, non si limitano quasi mai a “riprodurre” la realtà, ma spesso rivelano anche parte della propria personalità. Per questo, dopo che il bambino ha appena realizzato un disegno, è importante che l’insegnante di fumetto ponga diverse domande e aiuti il bambino a raccontare e “scoprire” i propri disegni.

L’esercizio di disegnare e di raccontare è importantissimo per stimolare la creatività dei più piccoli: l’intelligenza e la creatività – infatti – si manifestano attraverso innumerevoli attitudini, che è importante saper riconoscere e di cui è importante acquisire coscienza.

Inoltre, per un bambino scoprire che le storie e le vignette di uno dei propri personaggi preferiti seguono delle regole che è possibile imparare a lezione, è incredibilmente stimolante.

Imparare a disegnare e a raccontare una storia anche attraverso le immagini significa padroneggiare un mezzo immediato di espressione, un ulteriore strumento per poter elaborare emozioni e sentimenti e per poter dar forma alle proprie idee.

 

Libri illustrati e fumetti

Perché i libri illustrati sono utilissimi per incoraggiare i bambini alla lettura?

Innanzitutto, perché immagini ed illustrazioni hanno una forza evocativa naturale, in grado di far nascere nel piccolo lettore un interesse e farlo partecipare attivamente alla lettura.

Inoltre, non bisogna dimenticare che in tenera età, i bambini amano ascoltare storie e fiabe, seguendo la narrazione orale grazie alle immagini: i fumetti sono il prosieguo di questa impostazione. Grazie alle immagini, si evita che il piccolo lettore possa percepire la narrazione come “statica” e poco avvincente.

Il bambino viene attratto, stupito e conquistato dai disegni e dalle illustrazioni di un libro: questi ultimi sono il medium attraverso cui il bimbo diventa soggetto attivo del racconto.

Inoltre, i fumetti e le illustrazioni sono entrambe un ottimo metodo per sviluppare la capacità di legare immagini e concetti: la presentazione di contenuti didattici attraverso il supporto grafico di un’immagine o di una rappresentazione, è un metodo largamente utilizzato in ambiente didattico. Pertanto, l’esercizio della capacità di apprendere per immagini sarà utile al bambino anche a scuola.

5 fumetti per bambini

  • Topolino: l’intramontabile Mickey Mouse, Paperino, Paperoga, Zio Paperone, Paperina, Minny e tutta la banda Disney;
  • Asterix: la storica serie di fumetti francese creata da Goscinny e Uderzo;
  • Monster Allergy: albo a fumetti della Disney pubblicato sotto l’etichetta Buena Vista Comics. Racconta la storia di Zick, un bambino di 10 anni timido e introverso, affetto da innumerevoli allergie, che usa in molte occasioni per tenere alla larga altri bambini della sua età;
  • Mumin: i Mumin sono personaggi creati dalla illustratrice Tove Jansson, simili a ippopotami bianchi. Abitano in una valle e i fumetti raccontano la storia delle loro avventure;
  • Geronimo Stilton: è una serie di fumetti che prende il nome dal suo protagonista, un “topo intellettuale” specializzato in Filosofia Archeotopica Comparata e Topologia della Letteratura Rattica, che è direttore de L’Eco del roditore, il quotidiano più diffuso di Topazia e dell’Isola dei Topi.

… in conclusione

Regalate ai vostri bambini un fumetto e delle matite, incoraggiateli a veicolare con i colori la loro creatività. Non gli avrete regalato solo fumetti, quaderni, matite e colori ma un ulteriore modo per esprimere se stessi.

A cura della redazione di MioDottore e della Dott. ssa Miriam Troianiello, Neuropsichiatra Infantile e Psicoterapeuta.

 

 

I rischi dell’iperprotettività

Si sente ripetere spesso che essere iperprotettivi verso i propri figli può portarli, da grandi, ad avere problemi psicologici permanenti e stati d’ansia continui. È davvero così?

Quando è sbagliato proteggere i propri figli?

Mai. Proteggere i propri figli dai pericoli del mondo esterno, essere presenti e guidare la loro crescita è il dovere di ogni genitore. Quello che è assolutamente sbagliato, è esercitare una iper-protezione.

Se il bambino o la bambina sta giocando con gli amichetti, è bene non eccedere con le raccomandazioni del tipo “non correre troppo”,”non bere la coca cola fredda”,”ti sei coperto bene?”, etc. Le raccomandazioni eccessive rischiano di causare un senso di preoccupazione ingiustificato ed amplificato nel bambino, non solo verso i possibili scenari del mondo esterno ma anche nei confronti delle aspettative del genitore.

Inoltre, eccessivi paletti e raccomandazioni possono condurre a uno stato d’ansia continuo.

Un atteggiamento iperprotettivo durante i primi anni di vita del bambino, può sfociare in una presenza eccessiva dei genitori nella vita del giovane e nello sviluppo di un carattere debole, incapace di prendere decisioni in autonomia e di adattarsi a un mondo sempre più veloce e dalla competizione sempre più spiccata.

Come procedere dunque? È opportuno seguire da vicino i bambini durante i primi anni di vita, per evitare che sviluppino disposizioni e comportamenti errati e pericolosi.

Sì alle regole e ai divieti, no agli eccessi protettivi. È bene lasciare sempre uno spazio di libertà per poter provare, sbagliare e imparare – da soli – dai propri errori. Fin dalla tenera età.

Iperprotezione: uno steccato impenetrabile

Nel mondo animale tutte le specie esercitano una spiccata protezione sui propri cuccioli. Nel caso degli uomini, la differenza principale concerne la durata di questo atteggiamento protettivo, estremamente più prolungata.

Prendersi cura dei propri figli, consigliarli, metterli in guardia non è iperprotezione. Si denotano invece atteggiamenti iper-protettivi quando il genitore vuole risolvere tutti i problemi del figlio e si sostituisce a lui al momento di decidere e – a volte – anche di pensare.

Continue e costanti raccomandazioni, continui e costanti allarmismi. La logica del “non fare questo perché..” può avere conseguenze devastanti. Allo stesso tempo, questo atteggiamento è spesso accompagnato dalla mancanza di (poche) regole chiare e dalla non-chiarezza delle conseguenze delle proprie azioni. Vale a dire: è bene far capire ai propri figli che i propri sbagli hanno delle conseguenze e assicurarsi che queste conseguenze siano per loro chiare (e anche a volte vissute), piuttosto che alimentare le loro insicurezze con continue raccomandazioni, senza però applicare con fermezza poche regole condivise.

Se questo atteggiamento si accompagna alla propensione ad “alleggerire” i propri figli da responsabilità e doveri (spesso del tutto adatti alla loro età), il danno è fatto. I bambini cresceranno con l’abitudine al fatto che qualcuno risolva i loro problemi, prepari loro da mangiare, pensi al loro futuro, a comprare quello di cui hanno bisogno, a vestirli, etc. etc.

Cerchiamo di schematizzare le possibili conseguenze di un simile atteggiamento:

  • Autostima: se non insegni ai tuoi figli a prendere delle decisioni autonomamente, dipenderanno sempre da qualcun altro. E questa dipendenza potrebbe mantenere bassa la loro autostima;
  • Minore capacità di apprendimento: paventare ai propri figli ogni possibile scenario che potrebbe manifestarsi in ogni situazione, ridurrà la loro capacità di imparare dagli errori. Ci sarà sempre qualcuno pronto a “interpretare” per loro la realtà e non si eserciteranno nel farlo;
  • Ansia e paura: se le raccomandazioni dei genitori su tutti i rischi e pericoli che è possibile incontrare in ogni contesto sociale e della vita sono state continue e pressanti, è molto più facile che i figli possano sviluppare un sentimento di “paura del possibile”. Insieme alla minore capacità di apprendimento, questo sentimento impedirà loro di affrontare e risolvere in autonomia i propri problemi e, nuovamente, li porterà ad essere dipendenti da qualcun altro a causa di una bassa autostima.
  • Incapacità di accettare e reggere le sconfitte: i bambini che non hanno mai sperimentato, nel corso della loro infanzia, i sentimenti successivi a una sconfitta e alla impossibilità di realizzare quanto voluto, avranno difficoltà ad affrontare le sconfitte che la vita – inevitabilmente – riserva. Non solo: l’incapacità di accettare una sconfitta, connessa alla minore capacità di apprendimento, li renderà meno capaci di modificare un piano iniziale e di pianificare un’alternativa. Non saranno in grado quindi di immaginare e realizzare una “vittoria parziale”. Quindi, di adattarsi alla realtà.

 

Carl Rogers e la Tendenza Attualizzante nel processo di crescita

Carl Rogers, psicologo umanista, sosteneva che insita in ogni essere umano vi è una naturale tendenza a sfruttare nel modo migliore possibile le proprie risorse  in una data situazione. Tale forza, denominata Tendenza Attualizzante, può essere aiutata, nel processo di crescita, dalla presenza costante di genitori o altre figure di accudimento, il cui ruolo è di accompagnare i figli per prepararli ad affrontare il mondo. Il fulcro del discorso è proprio questo: accompagnarli, non sostituirli.  I bambini hanno la naturale propensione ad esplorare il mondo che li circonda per conoscerlo e sperimentarlo, e in questo loro importantissimo compito evolutivo è bene che siano affiancati dai genitori senza che questi gli costruiscano intorno un muro protettivo ed invalicabile. È naturale che i bambini abbiano bisogno di regole, paletti entro cui muoversi in sicurezza, ma questi paletti hanno lo scopo di farli sentire sicuri, proteggerli da pericoli reali e trasmettere valori familiari. Non devono essere soffocanti per placare le ansie dei genitori che, altrimenti, verrebbero trasmesse anche ai figli. Sì, dunque, alle regole, che devono essere  poche, chiare, motivate e adeguate all’età del bambino. Sì anche alle conseguenze dell’infrazione delle regole, che devono essere altrettanto chiare, motivate e spiegate in anticipo. Soprattutto, devono realizzarsi davvero quando necessario. Minacce assurde, catastrofiche ed eterne che non si potranno mai realizzare sul serio non solo renderanno poco autorevoli i genitori agli occhi dei figli ma destabilizzeranno i figli che non sapranno cosa aspettarsi dalle diverse situazioni. La prevedibilità, al contrario, permette ai bambini di sentirsi sicuri che ad ogni dato comportamento corrisponde di certo una data reazione. Potrà dunque imparare ad ipotizzare come funziona il mondo e sperimentare nuove situazioni, riscontrando anche che in seguito ad una sconfitta c’è la possibilità di rialzarsi e riprovare. Questo perché all’interno di paletti non rigidi e regole prevedibili avrà sperimentato le sue potenzialità e la sensazione di “essere capace”. Un ulteriore suggerimento per sostenere il bambino nelle sue esplorazioni è  riferirsi a lui con frasi positive piuttosto che negative: invece di dire ” attento a non cadere” è meglio dire “mantieni l’equilibrio”. Questo permetterà  al bambino di non avere paura di ogni situazione possibile ma di sperimentarsi in prima persona con piena fiducia nelle proprie capacità, senza ansie.  Dr. ssa Amanda Rossini, psicologa e psicoterapeuta.

Possiamo dare forma al concetto di iperprotezione, immaginandolo come uno steccato senza fessure alto mezzo metro. Quando il piccolo cresce e diventa un adulto, per forza di cose guarderà oltre. Ma non avrà – nel frattempo – saputo immaginare soluzioni ai problemi che gli si potranno presentare. Come avrebbe invece potuto fare, se dallo steccato si fosse potuto vedere qualcosa.

A cura della redazione di MioDottore con il contributo della Dott. ssa Amanda Rossini, psicologa e psicoterapeuta.

 

 

Un uso “educativo” del cellulare per i bambini: 5 strategie

Per quanto i tuoi bambini si trovino ancora in un’età in cui alla tecnologia si preferiscono i giochi (e i giocattoli), prima o poi arriverà la fatidica domanda: “posso avere un cellulare?”

Il cellulare è adatto per i bambini? A quale età? Ma soprattutto: può avere un utilizzo di tipo “educativo” per tuo figlio? In che modo?

“Il cellulare oggigiorno è diventato un’esigenza purtroppo, non serve né demonizzare né esaltarne l’uso, però sarebbe opportuno promuovere, presso le scuole, corsi volti ad informare ed educare su un sano utilizzo dei mezzi informatici in genere. I bambini dai 10 anni in su possono averlo, ma di fondamentale importanza diventa la gestione del cellulare: ovvero solo per necessità, evitando di stabilire una grave dipendenza. Bisogna favorire lo sviluppo del pensiero creativo nel bambino e soprattutto lo sviluppo delle capacità sociali: il cellulare potrebbe ostacolare tutto ciò. Un utilizzo di tipo educativo si può avere solo nel caso in cui ci sia una giusta consapevolezza dei rischi e dei pregi di un mezzo, come il cellulare. Potrebbe diventare uno strumento anche didattico se utilizzato in maniera intelligente, secondo un obiettivo ed entro soprattutto tempi prefissati.” Dott. ssa Mariangela Castellano.

L’età del primo cellulare si abbassa sempre di più

Secondo un recente sondaggio, un bambino su cinque in Italia inizia a prendere contatto col cellulare durante primo anno di vita. Fra 3 e 5 anni di età, l’80% dei bambini è ormai in grado di usare il telefonino dei genitori.

Possiamo dunque dire che, se ancora non hanno sostituito il televisore come “compagno tecnologico” dei bimbi, gli smartphone e i tablet sicuramente l’hanno affiancato e, in un futuro non troppo lontano, potrebbero persino arrivare a soppiantarlo.

Ad ogni modo, c’è da rimarcare che, sempre secondo il sondaggio, la maggior parte dei genitori (due su tre) usano tablet, smartphone e altri apparecchi elettronici insieme ai figli. È importante infatti sottolineare come l’uso del cellulare per i bambini non sia assolutamente da condannare, ma possa anzi risultare assolutamente sicuro e persino educativo, se i genitori sono pronti a seguire alcune semplici accortezze.

5 strategie “educative” per l’utilizzo del cellulare:

1.   Il cellulare si “condivide” con  la mamma e il papà

Almeno fino ai 12 anni, è bene che il cellulare sia un oggetto personale del bambino, ma che al contempo il suo utilizzo avvenga sotto lo sguardo vigile dei genitori.

2.   Stabilire orari e regole fin da subito

“Niente TV dopo le 14:00”. “I cartoni animati li guarderai dopo aver finito di studiare”. “Quando si studia, non si guarda la televisione”. Quante volte, da bambino, abbiamo sentito queste frasi?

Come per la televisione, anche per l’utilizzo del cellulare è necessario stabilire regole e orari più o meno fissi: in questo modo, non solo sarà più facile condividerne l’utilizzo e guidare il bambino a un uso consapevole e responsabile della tecnologia, ma il cellulare stesso diventerà un mezzo indiretto per un fine importante per la maturazione personale: l’acquisizione di regole e di una certa disciplina.

Quante ore al giorno usarlo? Al momento, la maggior parte degli esperti consigliano un uso moderato nella prima infanzia: circa un’ora al giorno fino ai 10-12 anni.

3.    Educare all’uso di internet

Fornire uno smartphone a un bambino significa anche metterlo in contatto con una realtà per lui nuova, Internet. Il web è una grande risorsa per noi adulti, ma è bene educare fin da subito i bambini al suo utilizzo, soprattutto in relazione ai pericoli di vario genere che possono celarsi in rete: fare attenzione agli sconosciuti, non postare sui social media proprie foto o immagini, ecc.

Anche in questo caso, al controllo bisogna affiancare la partecipazione alla vita e alle attività che il bambino svolge su internet.

4.    Usare le possibilità educative offerte dalle nuove tecnologie

Smartphone e tablet sono una grande risorsa per l’apprendimento: giochi interattivi, piccoli quiz, e altre applicazioni e programmi sono molto preziosi per sviluppare l’apprendimento dei più piccoli in maniera divertente e partecipativa.

Inoltre, grazie a internet, puoi insegnare molte cose al tuo bambino in maniera immediata: una domanda di geografia si può trasformare  nell’immagine di un monumento, di una città, di un parco, ecc.; un argomento storico trattato in classe dalla maestra può diventare l’occasione per mostrare una mappa dell’impero romano dallo schermo del tablet; le pronunce di una lingua straniera possono essere studiate ascoltando un file audio, e così via.

5.   I divieti non servono

Al di là delle legittime preoccupazioni, vietare del tutto l’uso del cellulare potrebbe rivelarsi persino controproducente: non solo, come sappiamo, per i più piccoli il “fascino del proibito” è forte e potrebbero dunque trovare il modo di usare le nuove tecnologie di nascosto (senza a quel punto darci la possibilità di controllarne l’utilizzo), ma soprattutto si rischia di perdere le opportunità educative dirette e indirette che esse offrono.

Come spesso accade, il problema non è lo strumento in sé, ma l’uso che se ne fa e, soprattutto, la capacità di noi “grandi” di aiutare i “piccoli” a muoversi con consapevolezza in una nuova realtà e a renderla il più possibile consona al loro sviluppo psicologico e sociale.

A cura della redazione di MioDottore e con il contributo della Dott. ssa Mariangela Castellano, psicologa e psicoterapeuta.

 

 

 

 

 

I bambini e lo sport: quali le regole fondamentali?

Vi sono alcune semplici regole che riassumono il giusto modo di far approcciare i bambini allo sport:

  • L’attività sportiva non deve prescindere dal gioco: l’impegno dei bambini in uno sport qualsiasi non può prescindere dalla dimensione della socialità. Lo sport deve far parte del bagaglio culturale del bambino e stimolarlo a fare amicizia e nell’apprendimento;
  • Non avvicinare i bambini troppo presto all’attività sportiva agonistica. Capita che le società sportive tendano a forzare in questa direzione ma è importante ricordare quanto sopra sottolineato: i bambini non sono “piccoli adulti” e non possono avere gli stessi modelli dei più grandi;
  • “Proteggere” i bambini durante la pratica sportiva: l’abbandono di uno sport è spesso dovuto a esperienze negative, contrasti o umiliazioni. Il dovere dell’adulto è vigilare su queste dinamiche ed evitare che il bambino possa associare le esperienze traumatiche allo sport, per non compromettere la loro salute presente e precludere loro – da adulti – una buona abitudine futura;
  • L’attività sportiva costante comporta delle rinunce quotidiane: qualora l’impegno richiesto sia elevato, i bambini potrebbero trascurare altre attività molto importanti per la loro età. Fondamentale è quindi assicurarsi che i bambini non trascurino attività ludiche, sociali e formative di fondamentale importanza per il loro corretto sviluppo;
  • I bambini non sono in grado di dare il giusto valore a una vittoria e a una sconfitta e – spesso – si identificano con il risultato, con il rischio di perdere autostima. L’agonismo – che comporta la ricerca della vittoria con il massimo delle energie – è quindi potenzialmente pericoloso in tenera età;
  • Allenamenti eccessivi e mancanza di sufficiente supporto da parte delle figure genitoriali e dell’allenatore, possono causare l’insorgere di disturbi di tipo psicologico (umore, ansia);

Infine, è bene ricordare che il principio che il bambino abbia diritto di giocare e divertirsi, senza pressioni agonistiche, è sancito dalla Carta dei Diritti del Bambino nello Sport.

Cosa dev’essere dunque l’agonismo per i bambini?

L’agonismo – per i più piccoli – non deve significare dunque vincere la partita bensì partecipare alla partita: giocare e impegnarsi, senza dover essere dei campioni. Questo semplice assunto – fondamentale per lo sport durante l’infanzia – è importante anche per migliorare la cultura dello sport negli adulti, nelle famiglie, negli sportivi professionisti.

 

A cura della redazione di MioDottore e con il contributo della Dott. ssa Mariangela Castellano, psicologa e psicoterapeuta.

 

 

 

 

 

 

Sport ed età evolutiva

Lo sport ha un ruolo molto importante nel raggiungimento di un equilibrio psico-fisico, sia durante l’età adulta che durante l’età evolutiva.

Fa bene alla salute, previene il rischio di patologie cardiovascolari, aiuta a restare in linea e ad arginare l’aggressività: è uno sfogo naturale, con effetti positivi su tutta la sfera dell’emotività. Inoltre, funzione dello sport è anche spingere alla socializzazione e contribuire alla condivisione di regole: tutti questi ingredienti, fanno dello sport uno dei pilastri per un corretto sviluppo psico-emozionale del bambino stimolando la predisposizione al gioco e alla socialità, fortificando lo spirito di appartenenza a un gruppo e alla società e aumentando la disposizione alla cooperazione. Ma come approcciare correttamente uno sport durante l’età evolutiva?

Sport: un’attività quotidiana

A partire dagli anni ‘90 si è spinto molto per fare dell’attività sportiva un punto fermo della quotidianità dei bambini. Molti bambini infatti si avvicinano a sport di squadra e discipline sportive in tenera età (calcio, pallavolo, nuoto, pallacanestro, rugby, arti marziali, scherma, pattinaggio, etc.). In parallelo all’aumento dei praticanti di discipline sportive è aumentato anche il numero di piccoli sportivi che si sono avvicinati all’agonismo: molti “baby atleti”, si avvicinano alla pratica agonistica tra i 7 ed i 18 anni.

Al giorno d’oggi, soltanto il 10% degli italiani adulti svolge con regolarità attività sportiva, mentre adolescenti, bambini e ragazzi praticano lo sport quasi ogni giorno (grazie a scuola, associazioni e partecipazione a società giovanili). Spesso sono i genitori ad avviare i propri figli allo sport, con intento educativo. A volte capita – purtroppo – che alcuni genitori “investano” il proprio figlio dei propri sogni non realizzati, mettendolo nelle mani di allenatori o procuratori che ne devono curare la crescita agonistica e atletica.

Bisogna ricordare che i bambini non sono “piccoli adulti” ma hanno delle caratteristiche e delle necessità proprie della loro stagione evolutiva: per questo è fondamentale non solo che i programmi di allenamento rispettino caratteristiche date dall’età e disposizioni personali, ma anche che i genitori non “forzino” il proprio figlio nella pratica di uno sport in particolare e non lo spingano precocemente verso l’attività agonistica, senza che nel bambino sia nata la voglia di “fare un passo in più” e di praticare lo sport in modo agonistico.

A cura della redazione di MioDottore e con il contributo della Dott. ssa Mariangela Castellano, psicologa e psicoterapeuta.

 

Quale certificato occorre?

 Calcio o tennis? In tutti i casi all’atto dell’iscrizione verrà richiesto il certificato medico e si ripresenta il solito dilemma su quale sia il certificato corretto e a chi richiederlo. Proviamo a fare chiarezza.

Le attività organizzate e gestite da società affiliate al CONI o da enti di promozione sportiva richiedono obbligatoriamente la certificazione non agonistica che attesti l’assenza di controindicazioni alla pratica sportiva.

LA CERTIFICAZIONE NON AGONISTICA
Gli accertamenti previsti consistono in una visita generale con rilevazione della pressione arteriosa. È inoltre necessario effettuare un esame elettrocardiografico.

IL CERTIFICATO AGONISTICO
Per quel che riguarda la certificazione agonistica può essere richiesta solo se il bambino raggiunge i criteri anagrafici minimi stabiliti dalla federazione di riferimento. Per esempio per il calcio dai 12 anni o per il nuoto dagli 8 anni di età. Questa certificazione può essere rilasciata unicamente da medici specialisti in medicina dello sport dopo visita di idoneità che comprende esame spirometrico, elettrocardiogramma a riposo e dopo step test dei 3 minuti.

Per tutti i tipi di certificato la validità massima è di un anno. In fin dei conti, al di là dell’obbligatorietà, un controllo annuale dei nostri bambini è comunque una buona e sana abitudine!

www.centromedicomedeor.it

Se ci sono allergie… attenzione!

Piccoli allergici in vacanza

Anche in estate i bambini allergici possono essere esposti a rischi, derivanti da:

 pollini estivi. Se la meta delle vacanze è, ad esempio, un agriturismo nel centro-sud Italia, è possibile entrare a contatto con la parietaria o con i pollini del cipresso e dell’ulivo, alberi in genere non presenti nel nord del Paese.

– animali di campagna. Nelle aree di campagna, i bambini possono avere a che fare con cani e gatti, ma soprattutto con animali pelosi con i quali non sono normalmente a contatto – i cavalli e i conigli ad esempio – che possono generare riniti, congiuntiviti e crisi d’asma a volte anche molto importanti.

– pesce e frutti di mare. Se la destinazione è il mare, i bambini possono entrare a contatto con alimenti non consueti, come il pesce freschissimo e i frutti di mare. Ad alcuni bambini allergici al pesce basta passare davanti ad una pescheria per avere dei problemi di tipo respiratorio, semplicemente a causa dell’inalazione delle sostanze liberate nell’aria.

Per prevenire problemiConviene portare anche in vacanza un kit di farmaci e di dispositivi antiallergici. Se il bambino soffre di asma, non va dimenticato lo spray e, soprattutto, il distanziatore, senza il quale lo spray stesso non è efficace. Se invece è un allergico alimentare, ricordarsi di mettere in valigia l’adrenalina.

Si parte per le vacanze… alcune regole!

Perché i bambini devono essere fotoprotetti

La quantità di melanina prodotta è minima nelle prime fasi della vita per poi aumentare progressivamente con lo sviluppo. Studi epidemiologici hanno dimostrato che l’esposizione intensa in giovane età (al di sotto dei 15 anni) esercita effetti assai più nocivi ai fini del rischio di tumori della pelle. Infatti, il rischio di tumore della pelle sarebbe in gran parte determinato dal modo in cui l’individuo è stato protetto dalle radiazioni UV nei primi anni di vita, mentre i cambiamenti comportamentali successivi avrebbero una minor capacità di prevenire questi tumori.

 

Le regole della “tintarella intelligente”

Per ottenere una bella tintarella evitando gli effetti nocivi del sole è consigliabile attenersi alle seguenti norme:

– evitare l’esposizione tra le ore 11 e 16,30, quando la concentrazione dei raggi UV è maggiore;
– evitare le posizioni immobili e quindi non far dormire il bambino sotto il sole;
– evitare preparati “casalinghi” che stimolano l’abbronzatura;
– non considerare l’ombrellone o il bagno in acqua come una protezione efficace;
– non utilizzare prodotti potenzialmente fotosensibilizzanti come farmaci, cosmetici, profumi (prometazina, tintura di bergamotto, profumi ed essenze varie);
– partire all’inizio con fattori di protezione elevati per diminuire solo quando si è sviluppata una abbronzatura sufficiente
– applicare ripetutamente le creme protettive (ogni 2 ore circa e dopo ogni bagno)
– consultare il dermatologo per consigli specifici nel caso di bambini affetti da patologie cutanee o sistemiche associate a fotosensibilità.

[a cura del Centro Medico Medeor www.centromedicomedeor.it]

Educare all’ascolto

#MIGLIAIADIVITE

Parte la petizione salviamo #MIGLIAIADIVITE, per la chiusura di tutte le centrali a carbone in Italia entro il 2025
In questi giorni si decide il futuro energetico dell’Italia attraverso la Strategia Energetica Nazionale, in consultazione fino al 31 agosto. Petizione per chiedere un impegno concreto al Governo, capifila WWF, Greenpeace e Legambiente

Il link della petizione www.stopcarbone2025.org 

Al via oggi la petizione #MIGLIAIADIVITE, capifila WWF Italia, Greenpeace Italia e Legambiente, per chiedere a gran voce al Governo italiano una chiusura definitiva di tutte le centrali a carbone entro il 2025. In questi giorni, infatti, si sta definendo la strategia energetica dell’Italia (SEN), anche se in realtà su un arco di tempo limitato (20 anni) con un documento in consultazione fino al 31 agosto. Successivamente verrà ultimato e pubblicato il testo definitivo della Strategia. E’ quindi importante che i cittadini italiani facciano sentire la propria voce in questi mesi.

Con la SEN, l’Italia ha l’occasione di decidere di uscire dal carbone, salvando così migliaia di vite e cambiando le sorti del futuro energetico del nostro Paese. In Italia, le 12 centrali a carbone esistenti nel 2013 causavano circa 10 morti premature a settimana e costavano agli italiani ogni anno 1,4 miliardi di euro di spese sanitarie. Oggi, di quelle 12 centrali ne restano operative 8, tra cui le più grandi e inquinanti; gli impatti sono appena ridotti.

Il carbone, infatti, è tra i combustibili fossili quello che, se bruciato, emette più CO2 ed è quindi tra i principali responsabili del cambiamento climatico, le cui devastanti conseguenze toccano la vita di noi tutti. Negli ultimi 6 anni in Italia sono state circa 3600 le vittime dei disastri provocati da eventi meteo estremi[1], e a livello globale si parla di 2 miliardi di potenziali “rifugiati” climatici nel 2100[2].

Nella bozza di strategia nazionale presentata a metà giugno, per la prima volta si prende in esame l’uscita dal carbone come fonte di energia elettrica, ma purtroppo il Governo non è riuscito ad assumere una posizione netta e ambiziosa a favore di una data certa e possibile: per i promotori della petizione, il carbone in Italia deve chiudere entro il 2025.

La proposta di strategia prevede: uno scenario base, con il mantenimento di 4 centrali su 10, tra cui la centrale di Brindisi, la più inquinante d’Italia; uno intermedio, con la chiusura anche di Brindisi, e uno più avanzato, che prevede la chiusura di tutte le centrali entro il 2030, e non al 2025, come necessario. Il Governo, però, cerca in qualche modo di disincentivare questo ultimo scenario paventando alti costi e frapponendo ostacoli.

Posporre questo passo di 5 anni, far sopravvivere il carbone fino al 2030, costerebbe invece migliaia di vita umane e comporterebbe costi sanitari maggiori dei 2,7, miliardi preventivati per l’abbandono di quel combustibile al 2025. Per non parlare dei costi altissimi per il clima, delle migliaia di ettari di terreni agricoli avvelenati. Uscire dal carbone è l’occasione per creare nuovi posti di lavoro con una vera e giusta transizione verso le energie rinnovabili e l’efficienza energetica. Oggi abbiamo a disposizione tutte le tecnologie e conoscenze per guardare a un futuro 100% rinnovabile.

Al Governo preoccupano forse i costi degli indennizzi alle grandi aziende. I promotori della petizione, invece, sono preoccupati per i costi in termini di vite e di emissioni dannose per il clima che l’Italia dovrebbe continuare a pagare per una pericolosa mancanza di coraggio. Audacia e leadership, fieramente esibite durante i G7 e il Summit di Taormina, che il nostro esecutivo deve saper dimostrare non solo sul palcoscenico internazionale ma anche a casa nostra.

Per aderire alla petizione www.stopcarbone2025.org

Per info,

Ufficio Stampa WWF

Tel. 06 84497 332 – 340 9899147

 

Primo giorno di SCUOLA.

Il primo giorno di scuola materna è un momento fondamentale per il bambino e altrettanto importante ed emozionante per il genitore. Obiettivo di questo breve articolo sarà mettere a fuoco, ed analizzare la presenza dei diversi stati d’animo che caratterizzano questo delicato momento della vita dei nostri figli e cercare, per quanto ci è possibile, di arrivare pronti ad un traguardo d’inizio così importante per tutta la famiglia.

Ogni momento importante della nostra vita è caratterizzato dall’insorgere di un’emozione: sia essa positiva o negativa. Fare i conti con le proprie emozioni, saperle gestire al meglio e viverle nel modo più adeguato, richiede un’ottima consapevolezza emotiva e anche un buon grado di maturità personale.

Il primo giorno di scuola di nostro figlio è sicuramente un momento importante, sia per lui che per noi, e sappiamo che segnerà un grande passo all’interno di un percorso che durerà anni. Non bisogna spaventarsi quindi se, con l’avvicinarsi del primo giorno, veniamo inondati da una buona quantità di emozioni e di preoccupazioni. Lo step iniziale è riuscire a dare il nome ad ogni singolo mattoncino di questo bagaglio emotivo che ci stiamo portando dietro. Contentezza, entusiasmo, gioia, curiosità, felicità, paura, preoccupazione, dispiacere, ansia, possono essere solamente alcuni degli stati d’animo che dobbiamo imparare a riconoscere per vivere al meglio, e far vivere al meglio a nostro figlio, momenti come questo.

La preoccupazione (letteralmente pre – occupazione: occupare il nostro pensiero prima del dovuto) è assolutamente fisiologica se si pensa che sino a quel fatidico momento del primo giorno di scuola i bambini sono stati al sicuro, sotto la nostra attenzione e sorveglianza, protetti da ogni pericolo o da ogni agente esterno, o affidati a persone in cui riponiamo la nostra cieca fiducia. L’attaccamento, che durante i primi anni di vita, sperimentiamo nei confronti dei nostri figli, e di conseguenza che facciamo anche sperimentare loro, viene per la prima volta fronteggiato da un elemento separatore, come la scuola. Sperimentare l’apertura al mondo dei nostri figli e l’ingresso nella loro vita di altri attori (compagni, maestre, educatori etc) può essere in alcuni casi molto traumatico anche per il genitore. L’importanza del saper affrontare al meglio questo momento ha una duplice valenza: Insegna a noi come essere genitori capaci di supportare al meglio la crescita, l’individualità e l’autonomia di nostro figlio e inoltre insegna ai nostri figli come diventare degli adulti che non hanno paura del cambiamento e delle nuove sfide.

 

Perché la scuola fa paura ai bambini?

 

Perché all’inizio fa parte del cambiamento: si tratta di una nuova prova, di un’esperienza sfidante cui non è possibile sottrarsi. Una prova che mette in gioco infinite qualità e disposizioni (forza di volontà, capacità di apprendimento, socialità, capacità di lavorare in gruppo e di sapersi relazionare, capacità di saper fronteggiare ostacoli e sconfitte).

Il primo giorno di scuola – sia materna che elementare – è come se segnasse un nuovo, completamente nuovo, inizio: l’inizio di un percorso dove sappiamo già che vivremo delle vittorie e delle sconfitte, l’inizio di un percorso che durerà anni, e che una volta iniziato concederà pause solo dopo mesi, in occasione delle vacanze.

Ovviamente, questo quadro non è perfettamente delineato nella mente del bambino, tuttavia egli ha coscienza del cambiamento e della sfida impliciti nell’iniziare questo nuovo percorso. E questa prospettiva – comprensibilmente – rende il bambino eccitato e al contempo spaventato.

Come comportarsi?

 

È importante preparare il bambino a questo fondamentale cambiamento e – allo stesso tempo – preparare sé stessi. Per fare ciò può essere utile ricordare una parolina magica API: Ascoltare, Parlare, Interagire.

 

Ascoltare: Prima ancora di mettere in atto una serie di comportamenti che possano preparare il bambino a questo nuovo inizio sarebbe bello poter chiedere al bambino stesso che cosa pensa della scuola. Spesso i bambini, anche i più piccoli, hanno delle idee molto più elaborate di ciò che possiamo pensare e potrebbe stupirci molto soffermarci ad ascoltare le loro fantasie, preoccupazioni ed esigenze.

Inoltre interrogare il bambino in merito alle aspettative che nutre nei confronti della scuola, dei compagni o delle maestre renderà la scuola molto meno spaventosa (Si ha paura spesso di ciò che non si conosce e che non si riesce ad immaginare!) Inoltre ricordiamoci, che secondo molte delle teorie sul linguaggio, parlare di qualcosa aiuta la formazione del pensiero, quale preparazione migliore quindi che ascoltare sapientemente cosa ha da dirci il nostro bambino?

 

Parlare: Comunicare, parlare, dialogare, descrivere. È molto importante anche che il genitore riesca a parlare con il figlio, spiegargli perché deve andare a scuola, descrivergli una classe, raccontargli degli altri bambini e delle maestre. Potrebbe essere interessante anche riuscire a raccontare la propria esperienza personale, in modo positivo “Quando ero piccola ho conosciuto a scuola tanti amici con cui giocare, facevamo questi giochi, ci insegnavano queste cose etc.” così facendo svilupperemo nel bambino una normale curiosità nei confronti di un qualcosa di nuovo che la mamma e il papà hanno già fatto.

 

Interagire: Se i primi due consigli riguardavano una forma di dialogo, e quindi una preparazione di tipo passiva all’evento, quest’ultimo step rappresenta un avvicinamento più esperenziale. L’interazione con il bambino riguarda, infatti, una serie di comportamenti, o accorgimenti da mettere in atto.

  • Rientro dalle ferie: evitare di rientrare dalle vacanze estive pochi giorni prima dell’inizio scolastico. Per quanto belli e rilassanti i viaggi estivi non potranno mai riflettere la sicurezza dell’ambientazione domestica. Troppi cambi repentini (rientro da un viaggio, casa e poi subito inizio scuola) potrebbero disorientare il bambino che invece necessita di tutta la serenità per affrontare questo grande passo. E’ importante quindi, prima dell’inizio della scuola che il bambino abbia ripreso i propri ritmi e si sia ri-abituato all’ambiente domestico.
  • A letto presto! È altresì importante che – nei giorni che precedono l’inizio della scuola materna, ma anche elementare – il bambino vada a letto presto e si svegli presto, in modo da non soffrire i ritmi della quotidianità una volta iniziata la nuova routine.
  • Vedere con gli occhi: Per limitare le possibili preoccupazioni da parte del bambino potrebbe essere carino anche organizzare delle brevi passeggiate vicino alla nuova scuola anche solamente dall’esterno così da sfatare qualche possibile fantasia negativa o paure.
  • Lo zainetto: per accrescere ancor più la curiosità e quell’eccitazione positiva per un nuovo inizio, sarà certamente d’aiuto rendere il bambino partecipe della scelta del suo nuovo zainetto, se parliamo della scuola materna, o di tutto l’occorrente se parliamo anche delle elementari. Spesso gli accessori giocano un ruolo fondamentale e a volte basta uno zainetto per renderci dei supereroi invincibili!

 

È importante sottolineare, infine, che seppur molto semplicistici, questi step sono utilissimi per rendersi preparati al grande passo.. e non solo per i bambini!

Avere delle attenzioni, nei confronti dei più piccoli, mirate per la preparazione ad una tale avventura, renderà anche i genitori in grado di saper gestire meglio questa separazione. Separazione, si! Perché l’inizio della scuola decreta proprio quel momento in cui scegliamo di farli diventare (attraverso un lunghissimo percorso!) personcine autonome. Riuscire a preparare il bambino al distacco aiuterà senz’altro a rendere questo distacco meno traumatico, anche per gli adulti. Inoltre sarà più semplice anche saper gestire le emozioni legate alla preoccupazione e all’ansia, comprensibili ma disfunzionali se il bambino le dovesse assorbire e appropriarsene.

In ultimo è importante sapere che è inoltre buona norma informare gli educatori di tutte le eventuali patologie di cui soffra il bambino, sia più evidenti che lievi: anche piccoli ed apparentemente insignificanti disturbi possono essere una causa di stress per il piccolo, se non vi si presta attenzione. Comunicate quindi agli educatori non solo allergie, disturbi o intolleranze alimentari ma anche abitudini e piccoli vezzi della quotidianità.

 

Cosa mettere nello zainetto del bambino?

  • Dentifricio e spazzolino, se il bambino rimane a pranzo presso l’istituto;
  • Una merendina e una bottiglietta d’acqua;
  • Un cambio di vestiti;
  • Un foglietto con i recapiti dei familiari.

A cura della redazione di MioDottore.it e della Dott.ssa Federica Miccichè, psicologa e psicoterapeuta.

FRUTTA E VERDURA: COME FARLA MANGIARE AI BAMBINI

Forzare un bambino a mangiare qualcosa, può avere l’effetto contrario: generare una sorta di rifiuto aprioristico. Un tale rigetto – se riguarda alimenti dalle ottime proprietà nutrizionali e importanti per la crescita, come la frutta – è assolutamente da evitare. Come fare, dunque, a far si che i bambini amino la frutta?

Il primo passo, il più importante, è far acquisire al bambino delle corrette abitudini alimentari: come nell’adulto, anche nel bambino, una corretta alimentazione è associata all’acquisizione di corrette abitudini, che con una buona probabilità saranno mantenute anche in età adulta. Insegnare ai propri figli l’importanza della qualità del cibo che mangiamo, li renderà adulti educati, “alimentarmente” parlando, e in grado di fare delle scelte alimentari sane ed equilibrate.  Un bambino che ama la frutta sarà un adulto che ama la frutta!

Al contrario di quanto si pensa l’abitudine al consumo di frutta e verdura non è una fortuna concessa solamente a pochi genitori, ma il risultato di una vera e propria educazione ai sapori, che vale per i più piccoli ma anche per i più grandi! Ci basti pensare quanto il disgusto di qualche alimento (broccoli in età infantile ad esempio) passi prima per la testa, ossia per l’idea che quel sapore e odore non sia per nulla di nostro gradimento. Lo stesso sapore in età adulta diventa apprezzabile, se privati dal pregiudizio del disgusto, e completamente immangiabile se ne rimaniamo ancorati.

È quindi importante guidare il bambino verso una buona educazione alimentare. Insegnargli, giocando, che ogni alimento ha caratteristiche e qualità differenti, educarlo ai sapori dei cibi sani, quali frutta e verdura, aiutandolo quindi ad acquisire, sin da piccolo, una corretta abitudine alimentare che gli permetterà di apprezzare i sapori di una dieta varia e sana.

 

 

COME INCENTIVARE IL BAMBINO A TAVOLA?

La buona abitudine alimentare è un’urgenza che necessita, per essere realmente acquisita, di qualche trucchetto da parte dei genitori.

La preparazione del pranzo/merenda: coinvolgere il bambino nelle fasi della preparazione ha tantissimi risvolti positivi (e non solamente per l’educazione alimentare!!).

  • Sviluppo dell’autostima: sentendosi utile alla preparazione di una qualcosa che è necessario, come il pasto, il bambino accresce il proprio senso di appartenenza e la possibilità di sperimentarsi all’interno di un luogo considerato sicuro, sviluppando così anche una buona autostima. Sembrerebbe questo punto completamente slegato dall’educazione alimentare. È importante, invece, stabilire una buona connessione legata al concetto di nutrimento. Il pasto diventa così un momento a cui dare importanza all’interno della giornata, ed emotivamente legato ad un espressione serena del proprio sviluppo.
  • Sviluppo della curiosità alimentare: “Che sapore avrà quel piatto che ho preparato con mamma e papà?” La curiosità rappresenta una spinta molto positiva nel bambino rendendolo reattivo e sviluppandone anche l’intelligenza.
  • Mangiare giocando: una partecipazione alla preparazione possiamo averla anche dai più piccoli. Nel caso sia troppo difficile o pericoloso farci aiutare, possiamo sempre chiedere aiuto ai più piccoli nel disporre le varie pietanze all’interno del piatto.

(verdura come erba di un disegno, o un piatto di passato di verdure che assume le sembianze di una faccia). Questo accorgimento renderà l’atto del mangiare più piacevole in quanto verrà associato all’alimento un significato divertente.

 

Nel caso in cui non sia proprio possibile coinvolgere i bambini nella preparazione è possibile utilizzare qualche altro accorgimento/trucchetto.

Prima della preparazione: Spesso può essere utile coinvolgere i bambini non solo nella preparazione del pranzo o della merenda, ma anche nella scelta degli ingredienti. Portateli con voi al mercato o dal fruttivendolo, scegliete frutta e verdura insieme a loro. Rendeteli parte integrante delle scelte decisionali alimentari familiari.

Mangiare e sapere: durante la fase del pasto può essere carino, ogni tanto, far indovinare al bambino tutti gli ingredienti presenti nel piatto che sta mangiando. Questo gioco ha una duplice valenza: stimola la possibilità di conversare a tavola e sviluppa nel bambino la capacità al gusto per ogni singolo ingrediente.

Forchetta comanda color color…: Alcune verdure, o anche molta frutta, si presta alla possibilità di creare piatti molto colorati, e quindi alla possibilità di poter giocare con i colori. In questo caso è possibile giocare con il bambino chiedendo di mangiare un colore per volta, o anche cambiando spesso e chiamando i colori di volta in volta.

Si mangia prima con gli occhi: (soprattutto per la frutta come forma di merenda). Per agevolare la scelta di frutta durante le merende è possibile tagliarla a spicchi e impiattarla in un modo molto invitante (ad esempio un arancio che forma un viso con un grande sorriso) o addirittura giocare con la consistenza (tagliare la mela in fettine sottilissime rende il mangiarla molto divertente).

 

Così come i buoni accorgimenti esistono anche, ovviamente, dei comportamenti a cui prestare molta attenzione: 3 consigli da non attuare:

 

  • Se mangi tutto…: Bisognerebbe cercare di non far diventare frutta e verdura il prezzo da pagare per la ricompensa post pasto. Sebbene sia semplice pensare di poter dire “Se mangi tutta la mela puoi andare a giocare con i videogiochi” è molto svantaggioso. La mela, così come il cibo, assumerebbe una connotazione negativa e per una buona e serena abitudine alimentare questo non è possibile.
  • Finiscilo comunque..: Forzare il bambino a mangiare da un piatto che ha già disgustato non è assolutamente la giusta via. È possibile in quel caso proporre lo stesso ingrediente in forma diversa, magari coinvolgendo il bambino nella preparazione, per aiutarlo ad abituarsi al sapore.
  • Dopo la frutta ti puoi alzare..: Forzare i bambini a mangiare la frutta dopo i pasti non è una corretta abitudine alimentare. La frutta è preferibile inserirla tra due pasti come merenda.

Ultimo ma non meno importante: ricordate di dare il buon esempio! Se mamma e papà non mangiano la frutta, sarà difficile che possano convincere il proprio bambino a farlo. Prendetelo come un gioco e approfittatene per acquisire anche voi delle migliori abitudini alimentari! E se il bambino proprio non ne vuole sapere, non demordete e promuovete in lui la curiosità almeno per assaggiare.

 

FRUTTA E VERDURA NELLE SCUOLE

 Un aiuto fondamentale, per far acquisire la buona abitudine del consumo abituale di frutta e verdura ai bambini, viene anche dall’ambiente scolastico. È qui infatti che i bambini trascorrono una fetta considerevole della propria giornata, ed è alle mense scolastiche che sempre più bambini consumano il proprio pranzo – perché spesso entrambi i genitori lavorano.

Può l’istituzione scolastica aiutare le famiglie nel promuovere corrette abitudini alimentari? Assolutamente si! Accompagnare l’aspetto didattico alla pratica delle buone abitudini alimentari è un aiuto fondamentale: scoprire come la frutta e la verdura crescono, come vengono prodotte, quali siano le loro proprietà e come arrivino sul banco del fruttivendolo solletica la curiosità dei bambini e li accompagna nella scoperta delle buone abitudini alimentari.

 

Avvicinare didattica, gioco, scoperta e cibo è lo scopo del programma europeo “Frutta nelle scuole”, introdotto dal regolamento (CE) n.1234  del Consiglio del 22 ottobre 2007  e dal regolamento (CE) n. 288 della Commissione del 7 aprile 2009. Il programma si propone infatti di incentivare il consumo di frutta e verdura da parte dei bambini in età scolastica, attraverso varie iniziative (distribuzione di prodotti ortofrutticoli, informazioni sui prodotti ortofrutticoli, gite).

L’obiettivo è sempre lo stesso: acquisire buone abitudini alimentari attraverso l’apprendimento, il coinvolgimento e il divertimento.

A cura della redazione di MioDottore.it e della Dott.ssa Federica Miccichè, psicologa e psicoterapeuta.

Cosa è il glutine

Il glutine è un complesso proteico presente in alcuni cereali (frumento, segale, orzo, avena*, farro, spelta, kamut, triticale).

La prolamina è una delle frazioni proteiche che costituiscono il glutine ed è la responsabile dell’effetto tossico per il celiaco.
La prolamina del frumento viene denominata gliadina, mentre proteine simili, con il medesimo effetto sul celiaco, si trovano anche in orzo, segale, farro, spelta, kamut, triticale ed avena.

Il consumo di questi cereali provoca una reazione avversa nel celiaco dovuta all’introduzione delle prolamine con il cibo all’interno dell’organismo.
L’intolleranza al glutine genera infatti gravi danni alla mucosa intestinale quali l’atrofia dei villi intestinali.
Con dieta aglutinata si definisce il trattamento della celiachia basato sulla dieta di eliminazione di tutti i cereali contenenti glutine.
La dieta senza glutine, condotta con rigore, è l’unica terapia che garantisce al celiaco un perfetto stato di salute.

 

*L’avena è tossica?

La maggior parte dei celiaci può inserire l’avena nella propria dieta senza effetti negativi per la salute. Si tratta comunque di una questione ancora oggetto di studi e ricerche da parte della comunità scientifica, in particolare sulle specifiche varietà di avena maggiormente adatte ai celiaci.  Il Board Scientifico di AIC, pertanto, suggerisce il consumo di avena solo per quei prodotti a base di o contenenti avena presenti nel Registro Nazionale dei prodotti senza glutine del Ministero della Salute, che garantisce sull’idoneità dell’avena impiegata. Allo scopo di monitorare eventuali effetti legati all’introduzione dell’avena, si consiglia inoltre che tali prodotti vengano inizialmente somministrati a pazienti in completa remissione e che stiano seguendo una dieta senza glutine che abbia escluso anche l’avena

Cosa è la celiachia

La Malattia Celiaca (o Celiachia) è una infiammazione cronica dell’intestino tenue, scatenata dall’ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti.

La Dermatite Erpetiforme è una patologia scatenata in soggetti geneticamente predisposti dall’assunzione dietetica di glutine e caratterizzata da lesioni cutanee specifiche e distintive, che regrediscono dopo l’eliminazione del glutine dalla dieta. E’ considerata una variante della malattia celiaca, anche se molto raramente la Dermatite Erpetiforme si presenta con le caratteristiche lesioni della mucosa duodenale della celiachia

Sintomi

La Celiachia è caratterizzata da un quadro clinico variabilissimo, che va dalla diarrea profusa con marcato dimagrimento, a sintomi extraintestinali, alla associazione con altre malattie autoimmuni. A differenza delle allergie al grano, la Celiachia e la Dermatite Erpetiforme non sono indotte dal contatto epidermico con il glutine, ma esclusivamente dalla sua ingestione. La Celiachia non trattata può portare a complicanze anche drammatiche, come il linfoma intestinale

Diagnosi 

La celiachia può essere identificata con assoluta sicurezza attraverso la ricerca sierologica e la biopsia della mucosa duodenale in corso di duodenoscopia. Gli accertamenti diagnostici per la celiachia devono necessariamente essere eseguiti  in corso di dieta comprendente il glutine

[tratto da www.celiachia.it]

Allergie alimentari e mense scolastiche, come affrontare il problema?

Il problema delle allergie alimentari è in continuo aumento: in una città come Roma ci sono almeno 20.000 bambini allergici ad alimenti, nel Lazio 50.000. Le allergie alimentari interessano infatti il 2-3% dei bambini al di sotto dei tre anni, l’1-3% di quelli in età scolare e prescolare e l’1% degli adolescenti.

I bambini allergici ad alimenti che frequentano la comunità infantile si “concentrano” pertanto nei Nidi d’infanzia e nelle Scuole Materne, ma un numero tutt’altro che trascurabile è ancora presente nelle scuole dell’obbligo. Molti sono i problemi che i bambini con allergia alimentare e le loro famiglie devono affrontare quotidianamente: economici, psicologici, pratici, sociali. In particolare la frequenza della scuola e della mensa scolastica porta con sé:

Difficoltà a far accettare i bambini allergici ad alimenti nelle Scuole Materne e nei Nidi e/o a far frequentare loro la mensa scolastica (“no, signora, noi non garantiamo”);

Senso di diversità e di emarginazione rispetto ai compagni;

Menù scolastici poco variati e ripetitivi, spesso diversi da quelli dei compagni;

Senso di ansietà da parte dei genitori, dei bambini e dei loro insegnanti legato al timore di reazioni in caso di assunzione accidentale di alimenti allergenici. I sintomi che ad esse possono conseguire possono essere in alcuni soggetti di particolare gravità: insorgono generalmente entro pochi minuti dall’esposizione ed evolvono rapidamente, coinvolgendo diversi organi e apparati e mettendo potenzialmente in pericolo la vita del bambino.

Nelle scuole medie non è raro che per scherzo o per bullismo i compagni obblighino il bambino con allergia alimentare a ingurgitare l’alimento responsabile, con conseguenze talora tragiche. Le mense delle scuole sono di regola attrezzate, ma il servizio è messo in difficoltà dal fatto che questa è una patologia varia. Esiste per esempio “una” celiachia, e quindi “una” dieta per celiaci; ma ogni bambino ha la sua allergia alimentare e quindi ci debbono essere tante diete quanti sono i bambini con allergia alimentare. Diete che debbono essere costruite sul certificato di esenzione rilasciato dall’allergologo o dal pediatra. Ora, non sempre i certificati di esenzione vengono rilasciati dopo un appropriato iter terapeutico. A volte sono costruiti su congetture. A volte su eccessive cautele. A volte accarezzano il desiderio di non far mangiare ai propri bambini alimenti che loro non amano. O alimenti per i quali i genitori non si fidano della ristorazione scolastica (tipicamente, il pesce).

Non esiste una banca-dati sul numero di certificati per allergia alimentare, ma da una informale indagine presso alcune scuole materne italiane si aggirano attorno all’8%: una percentuale ben più alta di quella degli allergici. Molti recitano “affetto da intolleranza alimentare”, una diagnosi che non esiste in medicina. Molti fanno riferimento a test di scatenamento di cui si attende l’esito, ma l’esito di quei test non arriva mai durante l’anno scolastico.

In alcuni Paesi europei e negli USA esistono normative di legge che regolamentano l’approccio da parte degli insegnanti a bambini che possono presentare reazioni anafilattiche in seguito all’assunzione accidentale di alimenti allergenici: gli operatori sono informati di tale rischio e istruiti (nonché autorizzati) a riconoscere tempestivamente le reazioni e a farvi fronte. Sono inoltre dotati dei farmaci e degli strumenti che consentano loro tale intervento, nonché di tutti i numeri di emergenza da contattare in caso di assunzione accidentale.

Non sono attualmente presenti in Italia analoghe disposizioni legislative. A ciò consegue un ovvio disagio misto a timore da parte degli insegnanti, che da un lato si sentono responsabilizzati nei confronti del bambino allergico ma dall’altro hanno “le mani legate” per quanto riguarda qualunque intervento terapeutico, che spesso non sanno né quando né come mettere in atto; la somministrazione di farmaci a scuola suscita inoltre remore da parte degli insegnanti, che sostengono di non essere autorizzati né tutelati in merito.

Non è chiaro tuttavia se, a fronte di un action plan firmato dal medico e di un’autorizzazione-delega da parte dei genitori, gli insegnanti possano (debbano?) praticare l’adrenalina autoniettabile (farmaco salva-vita, utilizzabile anche dai “non-addetti ai lavori”) in caso di comparsa di reazioni anafilattiche a scuola.

Di conseguenza le famiglie dei bambini allergici affidano il loro bambino alla scuola con fiducia ma anche con grande preoccupazione. Progetti di formazione nelle scuole sono stati prodotti a Torino e a Milano, a opera di associazioni di genitori, allo scopo di formare gli insegnanti e gli educatori a conoscere, prevenire, riconoscere e saper trattare le reazioni conseguenti all’assunzione accidentale di alimenti allergenici. A Roma per ora non sono note esperienze simili.

 

[tratto da: www.ospedalebambinogesu.it/allergie-alimentari-e-mense-scolastiche]

L’eccesso di fruttosio fa male al fegato dei bambini

Uno studio dei ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù per la prima volta dimostra la correlazione tra il consumo di alte quantità di questo zucchero e lo sviluppo di malattie epatiche gravi. I risultati dell’indagine pubblicati sul Journal of Hepatology.
L’abuso sistematico del fruttosio aggiunto ai cibi e alle bevande ha un effetto pericoloso sulla salute di bambini: le quantità assunte quotidianamente in eccesso accrescono di una volta e mezza il rischio di sviluppare malattie epatiche gravi. La conferma scientifica arriva da uno studio dei ricercatori dell’area di Malattie epato-metaboliche dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù che, per la prima volta in letteratura, rivela i danni del fruttosio sulle cellule del fegato dei più piccoli. I risultati dell’indagine sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Journal of Hepatology.
Lo studio è stato condotto tra il 2012 e il 2016 su 271 bambini e ragazzi sovrappeso o obesi affetti da fegato grasso. In 1 bambino su 2 gli esami effettuati hanno rilevato livelli eccessivi di acido urico in circolo. L’acido urico è uno dei prodotti finali della sintesi del fruttosio nel fegato. Quando è prodotto in grandi quantità diventa tossico per l’organismo e concorre allo sviluppo di diverse patologie. Attraverso ulteriori indagini, incrociate con i dati emersi dal questionario alimentare somministrato ai pazienti, i ricercatori hanno dimostrato anche l’associazione tra gli alti livelli di acido urico e l’aggravarsi del danno al fegato, soprattutto tra i grandi consumatori di fruttosio. In particolare è stato rilevato che la larga maggioranza dei bambini e ragazzi partecipanti allo studio assumeva una quantità media giornaliera di fruttosio superiore a 38 grammi. Un livello ben al di sopra del limite massimo giornaliero di zuccheri aggiunti indicato dall’American Hearth Association: l’associazione dei cardiologi americani in un recente articolo pubblicato su Circulation raccomanda, infatti, di evitare l’uso degli zuccheri aggiunti (glucosio, galattosio, fruttosio, saccarosio) nell’alimentazione dei bambini sotto i 2 anni e di non superare il limite di 25 grammi al giorno tra i 2 e i 18 anni.

IL FRUTTOSIO AGGIUNTO
Il fruttosio è uno zucchero naturale presente in diversi alimenti, soprattutto nella frutta ma anche nei vegetali e nelle farine utilizzate per pasta, pane e pizza. In una dieta bilanciata, il consumo di fruttosio naturalmente contenuto nei cibi non provoca alcun effetto negativo. I problemi a carico del fegato dei bambini derivano dall’abuso quotidiano, sistematico, di fruttosio aggiunto presente negli sciroppi e nei dolcificanti utilizzati principalmente dall’industria nelle bevande e in varie preparazioni alimentari.

I MECCANISMI DEL DANNO AL FEGATO
Il fruttosio viene metabolizzato, ovvero scomposto e trasformato, principalmente nel fegato. Questo processo di sintesi produce energia per il corpo, ma anche altri derivati come l’acido urico. Se la quantità di fruttosio ingerita sistematicamente è eccessiva, il percorso metabolico si altera e viene prodotto troppo acido urico. Quando l’organismo non riesce a smaltire le alte concentrazioni in circolo, si innescano meccanismi pericolosi per la salute: aumenta lo stress ossidativo (i vari componenti delle cellule vengono danneggiati dalla rottura dell’equilibrio cellulare) e si attivano insulino-resistenza e processi infiammatori delle cellule epatiche. Questi meccanismi sono precursori dell’insorgenza del diabete e del fegato grasso. Nei bambini con il fegato già compromesso, accelerano la progressione della malattia verso stadi più gravi (steatoepatite non alcolica, fibrosi epatica, cirrosi).

I ricercatori del Bambino Gesù hanno quindi dimostrato che i bambini con abitudini alimentari sbagliate, sottoposti a un sistematico “bombardamento” di fruttosio, corrono un rischio aumentato di sviluppare patologie del fegato.

«Diversi studi hanno provato che l’elevato consumo di zucchero è associato a numerose patologie sempre più frequenti in età pediatrica come l’obesità, il diabete di tipo II e le malattie cardiovascolari. Ma poco si sapeva del suo effetto sul tessuto epatico, almeno fino ad oggi» spiega Valerio Nobili, responsabile di Malattie Epato-metaboliche del Bambino Gesù. «Con la nostra ricerca abbiamo colmato la lacuna: abbiamo infatti dimostrato che un eccessivo consumo di fruttosio si associa ad alti livelli di acido urico e soprattutto a un avanzato danno epatico, tanto da favorire la precoce comparsa di fibrosi prima e cirrosi poi a carico del fegato. Ecco perché, alla luce di quanto certificato dal nostro studio, è fondamentale non abusare di cibi e bevande con un elevato contenuto di fruttosio, modificando le errate abitudini alimentari dei nostri ragazzi».

[ tratto da: www.ospedalebambinogesu.it/fruttosio-danni-fegato]

I vaccini contro la meningite

Abbiamo già trattato l’argomento nella pagina “la meningite”, ma vogliamo continuare a parlarne…

Le meningiti sono malattie infettive acute, caratterizzate dall’infiammazione del rivestimento del cervello e del midollo spinale: le meningi. In Italia, negli ultimi anni, vengono segnalate circa 1.000 meningiti batteriche l’anno in tutta la popolazione. La fascia di età più colpita è quella pediatrica e in particolare i bambini sotto l’anno di età.
Le meningiti possono essere causate da batteri, virus, funghi e parassiti. Quelle più gravi e pericolose sono quelle batteriche, che possono determinare la morte del soggetto colpito o esiti gravemente invalidanti.
Tutti possono ammalarsi di meningite, ma i soggetti più colpiti sono i bambini, in particolare se molto piccoli; soggetti a rischio sono anche gli anziani, chi soffre di problemi immunitari e chi di altre patologie croniche.

Nei neonati (entro 28 giorni di età) i germi coinvolti sono:
* lo Streptococco di gruppo B;
* l’Escherichia Coli;
* la Listeria Monocytogenes.

In tutte le altre età 3 sono le famiglie di batteri responsabili della quasi totalità dei casi:
* lo Streptococco Pneumoniae (Pneumococco);
* la Neisseria Meningitidis (Meningococco);
* l’Haemophilus Influentiae di tipo B (Emofilo).
CONTAGIO E SINTOMI

Le meningiti sono malattie particolarmente contagiose. L’infezione può trasmettersi attraverso le goccioline di saliva -parlando, tossendo, starnutendo- se ci si trova a stretto contatto (entro 1 metro di distanza) con un soggetto malato.

I sintomi con cui può presentarsi la meningite sono numerosi e tra questi i più frequenti sono:
– febbre alta;
– dolore al collo o rigidità del collo;
– mal di testa;
– vomito;
– sonnolenza;
– convulsioni;
– fontanella anteriore rigonfia nei lattanti.

Nei lattanti e nei piccoli bambini, la meningite può manifestarsi, soprattutto nelle fasi iniziali, con sintomi più sfumati come inappetenza, irritabilità e febbricola.
Un bambino con sintomi sospetti di meningite deve essere visitato al più presto da un medico che, qualora confermi il sospetto, invierà il paziente al Pronto Soccorso pediatrico più vicino.
DIAGNOSI E CONSEGUENZE

La storia clinica del paziente e la visita indirizzano molto alla diagnosi, che deve essere confermata con esami del sangue, ma in particolare con l’esame del liquido cefalorachidiano che viene prelevato attraverso la puntura lombare (tramite un ago infilato nella parte bassa della schiena, attraverso la colonna vertebrale. Nonostante gli importanti progressi della medicina, delle terapie rianimatorie e di terapia intensiva, ancora oggi il 10-15% dei soggetti colpiti da meningite muore, il 20-30% ha conseguenze gravi e invalidanti (amputazioni, danni cerebrali, sordità, epilessia, paralisi, ritardo neuropsicomotorio.).
COSA FARE IN CASO DI CONTATTO

In caso di contatto stretto e prolungato con un soggetto affetto da meningite batterica, deve essere praticata una terapia antibiotica su prescrizione medica specifica per il tipo di germe responsabile. Purtroppo le meningiti sono malattie molto gravi e anche quando la diagnosi viene fatta tempestivamente, e la terapia antibiotica praticata subito e in maniera adeguata, la possibilità di guarire senza esiti è inferiore al 50% dei casi.

Tanto più precoce è il trattamento, tanto maggiori sono le probabilità che il trattamento abbia successo e che la malattia guarisca senza esiti.
L’IMPORTANZA DEL VACCINO

La vaccinazione rappresenta l’unico modo al momento disponibile per prevenire le meningiti batteriche. Esistono vaccini per ciascuna famiglia dei principali batteri responsabili.

* Contro l’Haemophilus Influentiae di tipo B il vaccino è incluso nel vaccino esavalente la cui prima dose viene somministrata già a partire dal 61° giorno di vita (terzo mese).

* Contro lo Pneumococco è disponibile un vaccino che protegge da 13 differenti ceppi di Pneumococco (anche questo praticabile dai primi mesi di vita).

* Conto il Meningococco esistono diversi vaccini. Un vaccino contro il Meningococco C, uno contro il Meningococco B e un vaccino in grado di proteggere da 4 diversi ceppi (A, C, Y, W 135).

Parlando con il proprio Pediatra e/o Medico di fiducia, è possibile stabilire la migliore modalità per proteggere il proprio figlio, in base all’età del bambino. Tutti i vaccini contro la meningite sono sicuri e sono stati praticati in numerosissime dosi -i più nuovi in molte migliaia, i più datati in milioni di dosi. I vaccini rappresentano al momento l’unica possibilità per prevenire queste gravissime malattie. Purtroppo, ancora oggi, l’80% delle meningiti è dovuta a germi per i quali sono disponibili vaccini; questo significa che 800 dei 1.000 casi di meningite presenti in Italia potrebbero essere evitati.

Tratto da   www.ospedalebambinogesu.it/meningiti-b

Quando la mamma è anaffettiva.

La mamma è un punto cardine nella crescita emotiva del bambino.

Crescere con una mamma anaffettiva può creare serissimi danni: senso di abbandono e incapacità di riconoscersi come individuo e genera paura, ansia, senso di colpa facendo leva  sulla sua paura di perdere la relazione o di entrare in conflitto.

Generalmente queste madri sono persone che non riescono a rimproverare ma nemmeno sanno gratificare e sostenere i loro banbini. Sono incapaci di esprimere le proprie emozioni, soprattutto quando si tratta di manifestare amore. Non sanno proteggere, tranquillizzare, insegnare, consolare, ma riescono benissimo a squalificare, criticare, demotivare, scoraggiare, opprimere, intimidire, ricattare… in modo gelido e distaccato.

La madre anaffettiva riuscirà a rinfacciare ai figli adulti i sacrifici fatti per loro, avrà un comportamento da vittima e ricatterà moralmente i figli inducendoli ad un senso continuo di colpa facendoli sentire responsabili del suo malessere e persino della sua vecchiaia. Avranno continue richieste, lamenti chiedendo di essere aiutata e protetta mentre il suo atteggiamento concreto è quello di pensare solo a sé stessa. Mostra gelosia nei confronti dei figli adulti, per il loro successo con le persone, o magari per il loro lavoro.

 

 

I danni creati dal padre assente

Studiando  più a fondo il ruolo dei genitori nello sviluppo del bambino, gli psicologi sono arrivati ad individuare  l’importanza e la rilevanza della figura paterna durante l’infanzia.

La mancanza affettiva costante di un padre è un disagio profondo per il bambino e può creare seri danni psicologici e  lasciare un segno per tutta la vita.

Possiamo definire l’assenza del padre in due modi:

  • l’assenza fisica  – che non permette la confidenza affettiva e il modo ed il tempo di far valere la propria autorevolezza in termini di discussione, accordo e rispetto delle regole educative.
  • l’assenza progettuale o emotiva – E’ un padre assente,  anche colui che non dà il suo apporto al progetto genitoriale.

L’assenza fisica ha lo stesso peso dell’assenza emotiva e progettuale. Quando ci si riferisce all’assenza paterna si fa riferimento anche alla mancata capacità di accogliere le richieste dei propri figli, di amarli, di abbracciarli e di sorreggerli nelle difficoltà di ogni giorno.

Un padre può essere assente anche se si dedica solo al suo lavoro e non coltiva la relazione con i suoi figli. Un padre è assente quando beve, quando ha problemi con il gioco d’azzardo, quando è dipendente dalle sostanze, quando sceglie gli amici del bar alla propria famiglia, quando è troppo autoritario e impedisce, con la sua rigidità, la costruzione di un legame di cura e di affidamento.

 

Quali sono i problemi che si possono verificare nel bambino?

  • Autostima: il sentirsi non accettato o poco accettato dal padre, non avere la sua approvazione e il suo appoggio crea una riduzione della stima di sé stesso e non aiuta la formazione del carattere.
  • Difficoltà comportamentali: il bambino ha bisogno di un confronto continuo con il mondo esterno.  La figura del padre, in questo ruolo, non è solo “presenza fisica”, per aiutare il figlio nella crescita caratteriale deve  essere accompagnata dalle “presenza emotiva” dell’adulto che deve essere coinvolto, farne parte attiva, nei momenti importanti della vita del figlio.
    Si possono verificare comportamenti aggressivi e atteggiamenti da spavaldo, nel goffo tentativo di coprire la propria insicurezza.
  • Insicurezza e ansia: un padre che non è “dalla parte di suo figlio” genera insicurezza e ansia. Un padre assente che non mette in discussione positivamente le azioni del figlio o della figlia crea un segno negativo indelebile anche nell’età adulta. Questa situazione può provocare distacco sociale, superficialità nei rapporti, problemi di fiducia nei confronti degli altri.
  • Calo del rendimento scolastico: la condotta scolastica tende ad essere difficoltosa, con problematiche di inserimento, voti bassi e forte rischio di abbandono scolastico.

Si può sostituire la figura paterna?

Gli studi ci dimostrano come la presenza di una figura maschile possa compensare in parte il vuoto lasciato dall’assenza paterna.

Ovviamente nessuno sarà mai in grado di sostituire del tutto il proprio padre.  Nessuna presenza  potrà mai colmare quel senso di vuoto che resterà durante la crescita e l’adolescenza.

Imporante è quindi  circondare il bambino di adulti amorevoli, capaci di rispondere ai suoi bisogni: uno zio o un nonno possono rappresentare delle figure importanti a cui il bambino farà riferimento nel corso della sua crescita.
Un modello maschile affidabile, presente, in grado di richiamare in parte quel senso di autorevolezza necessario, garantirà al bambino di sperimentarsi nel rapporto con un uomo adulto.