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I danni creati dal padre assente

Studiando  più a fondo il ruolo dei genitori nello sviluppo del bambino, gli psicologi sono arrivati ad individuare  l’importanza e la rilevanza della figura paterna durante l’infanzia.

La mancanza affettiva costante di un padre è un disagio profondo per il bambino e può creare seri danni psicologici e  lasciare un segno per tutta la vita.

Possiamo definire l’assenza del padre in due modi:

  • l’assenza fisica  – che non permette la confidenza affettiva e il modo ed il tempo di far valere la propria autorevolezza in termini di discussione, accordo e rispetto delle regole educative.
  • l’assenza progettuale o emotiva – E’ un padre assente,  anche colui che non dà il suo apporto al progetto genitoriale.

L’assenza fisica ha lo stesso peso dell’assenza emotiva e progettuale. Quando ci si riferisce all’assenza paterna si fa riferimento anche alla mancata capacità di accogliere le richieste dei propri figli, di amarli, di abbracciarli e di sorreggerli nelle difficoltà di ogni giorno.

Un padre può essere assente anche se si dedica solo al suo lavoro e non coltiva la relazione con i suoi figli. Un padre è assente quando beve, quando ha problemi con il gioco d’azzardo, quando è dipendente dalle sostanze, quando sceglie gli amici del bar alla propria famiglia, quando è troppo autoritario e impedisce, con la sua rigidità, la costruzione di un legame di cura e di affidamento.

 

Quali sono i problemi che si possono verificare nel bambino?

  • Autostima: il sentirsi non accettato o poco accettato dal padre, non avere la sua approvazione e il suo appoggio crea una riduzione della stima di sé stesso e non aiuta la formazione del carattere.
  • Difficoltà comportamentali: il bambino ha bisogno di un confronto continuo con il mondo esterno.  La figura del padre, in questo ruolo, non è solo “presenza fisica”, per aiutare il figlio nella crescita caratteriale deve  essere accompagnata dalle “presenza emotiva” dell’adulto che deve essere coinvolto, farne parte attiva, nei momenti importanti della vita del figlio.
    Si possono verificare comportamenti aggressivi e atteggiamenti da spavaldo, nel goffo tentativo di coprire la propria insicurezza.
  • Insicurezza e ansia: un padre che non è “dalla parte di suo figlio” genera insicurezza e ansia. Un padre assente che non mette in discussione positivamente le azioni del figlio o della figlia crea un segno negativo indelebile anche nell’età adulta. Questa situazione può provocare distacco sociale, superficialità nei rapporti, problemi di fiducia nei confronti degli altri.
  • Calo del rendimento scolastico: la condotta scolastica tende ad essere difficoltosa, con problematiche di inserimento, voti bassi e forte rischio di abbandono scolastico.

Si può sostituire la figura paterna?

Gli studi ci dimostrano come la presenza di una figura maschile possa compensare in parte il vuoto lasciato dall’assenza paterna.

Ovviamente nessuno sarà mai in grado di sostituire del tutto il proprio padre.  Nessuna presenza  potrà mai colmare quel senso di vuoto che resterà durante la crescita e l’adolescenza.

Imporante è quindi  circondare il bambino di adulti amorevoli, capaci di rispondere ai suoi bisogni: uno zio o un nonno possono rappresentare delle figure importanti a cui il bambino farà riferimento nel corso della sua crescita.
Un modello maschile affidabile, presente, in grado di richiamare in parte quel senso di autorevolezza necessario, garantirà al bambino di sperimentarsi nel rapporto con un uomo adulto.

 

La dislessia evolutiva (D.E.)

È una difficoltà selettiva nella lettura che coinvolge la rapidità e la correttezza con cui si legge. Ridurre il disagio è possibile, ma è indispensabile intervenire precocemente.

La Dislessia Evolutiva (D.E.) è una difficoltà selettiva nella lettura, in presenza di
– capacità cognitive adeguate;
– adeguate opportunità sociali e relazionali;
e in assenza di
– deficit sensoriali e neurologici;
– disturbi psicologici primari.
Nella D.E. le difficoltà del bambino interferiscono nella vita quotidiana e nel proseguimento degli studi, e persistono nonostante un’istruzione scolastica normale.
In Italia colpisce circa il 4% dei bambini in età scolare.
Spesso le difficoltà di lettura si associano a
– difficoltà nella scrittura (disortografia);
– difficoltà nell’aritmetica;
anche se non necessariamente con la stessa intensità, perché queste tre abilità (lettura, scrittura e aritmetica) presentano delle basi comuni. Si parla, infatti, di sindrome dislessica.
vedi anche Disturbi specifici dell’apprendimento
A volte, nella storia di bambini con D.E. troviamo, in età prescolare, ritardo o disturbo specifico di linguaggio: infatti il bambino può avere anche risolto, nel linguaggio parlato, le difficoltà, ma si trova poi a doverle riaffrontare, ad un livello più alto, quando inizia a leggere e a scrivere.
Dalla definizione di D.E. sono esclusi tutti quei bambini che hanno un disturbo di apprendimento come effetto secondario di una causa principale (scarsa stimolazione socio-culturale, problemi neurologici, sensoriali della vista e/o dell’udito, ritardo di sviluppo, difficoltà cognitive).
Il disturbo di apprendimento di questi ultimi è, infatti, meno selettivo e più globale, riguarda le abilità cognitive in misura più generale e viene chiamato Disturbo aspecifico dell’apprendimento.

COME SI MANIFESTA?
Le difficoltà del bambino possono essere notate quando inizia a leggere e scrivere: nei casi più complessi in prima elementare, o, a volte, sin dall’ultimo anno di scuola materna (se si svolgono gli esercizi di pre-lettura e pre-scrittura). Nei casi più lievi, cominciano a notarsi dalla terza elementare, quando la lettura e la scrittura dovrebbero diventare automatiche e non lo sono.
È possibile riconoscere dei possibili segni quando il bambino
– legge in modo poco fluente;
– legge commettendo errori;
– a volte sembra non ricordare o non comprendere quello che legge;
– spesso commette errori anche quando scrive;
– scrive in modo poco comprensibile;
– spesso ha difficoltà in aritmetica;
– si distrae facilmente.

QUALI DIFFICOLTA’ DI LETTURA?
Nella D.E. ciò che è disturbato della lettura è la “decodifica”, cioè la rapidità e la correttezza con cui si legge.
La rapidità di lettura viene più comunemente valutata con un parametro statistico: nella D.E. essa è significativamente inferiore (2 o più “deviazioni standard”) a quella media dei soggetti della stessa età e livello di scolarizzazione.
Riguardo la correttezza di lettura ci sono degli errori “tipici”:
– errori di tipo visivo, che consistono nello scambio di lettere che hanno tratti visivi simili o speculari (“e” con ” a”, “r” con “e”, “m” con “n”, “b” con “d”, “p” con “q”);
– errori di tipo fonologico, riguardanti lo scambio di lettere che hanno la stessa “radice” (“f” con “v”, “c” con “g”);
– errori di “anticipazione”, cioè una parola letta al posto di un’altra, a cui si accomuna o per lettere iniziali o per significato (es, Algeri con allegri, chissà con chiese, sono stato con sono andato).
Questo accade perché nella D.E. possono essere disturbate una o entrambe le strategie con le quali possiamo leggere:
– la strategia lessicale, con la quale noi guardiamo la parola e la riconosciamo, quindi la diciamo scegliendola tra tutte le parole che conosciamo;
– la strategia fonologica, con la quale c’è un riconoscimento visivo delle singole lettere e un relativo accoppiamento con il fonema corrispondente. Le lettere poi vengono fuse insieme e si ha la parola.
Quest’ultima strategia si usa, nella lingua italiana, quando si impara a leggere, o si legge una lingua straniera, o si legge senza capire. Generalmente i bambini di lingua italiana già alla fine della prima elementare iniziano ad adottare una strategia lessicale di lettura.
La comprensione del testo nella D.E. è variabile, può anche essere buona o sufficiente, dipende molto dalla qualità della decodifica.

CAUSE DEL DISTURBO
Sulle cause della D.E. si è molto discusso in questi ultimi anni: inizialmente sono state fatte ipotesi di deficit percettivo-sensoriali; per lungo tempo poi si è pensato che le origini potessero essere di natura psico-affettiva (approccio sbagliato di genitori o insegnanti, problemi emotivi o relazionali, o di struttura della personalità del bambino).
Le ricerche più recenti sull’argomento confermano l’ipotesi di un’origine costituzionale della D.E.: una base genetica e biologica dà la predisposizione al disturbo, anche se ancora non ne sono stati precisati i meccanismi esatti.
Su di essa contribuisce in modo significativo l’ambiente (inteso anche come ambiente socio-culturale dei genitori), nell’amplificare o contenere il disturbo.
A favore di questa ipotesi ci sono diverse evidenze:
– la tendenza della D.E. alla familiarità, cioè ad essere presente in più membri di una stessa famiglia, anche se con intensità diversa;
– il fatto che nelle coppie di gemelli omozigoti (provenienti, cioè, da uno stesso ovulo, quindi con lo stesso corredo genetico) è molto frequente che entrambi i bambini presentino D.E. o che non la presentino, rispetto alle coppie di gemelli dizigoti (provenienti da due ovuli diversi);
– la tendenza della D.E. a persistere nel tempo, modificandosi, attenuandosi in alcune componenti: di dislessia, cioè, non si guarisce, anche se si può migliorare molto. In particolare, il processo di lettura non diventa mai automatico.
A volte può coesistere la presenza di difficoltà di attenzione e di D.E.
Di solito i bambini dislessici hanno difficoltà a mantenere a lungo l’attenzione a scuola, anzi spesso sono proprio queste difficoltà attentive che vengono rilevate dagli insegnanti.
Bisogna distinguere, nella clinica, se esse sono primarie (un disturbo dell’attenzione è, co-presente, insieme, al disturbo specifico di apprendimento) o se sono secondarie alle difficoltà di apprendimento: in questi casi, il bambino può raggiungere una soglia massima di affaticamento proprio per sovraccarico di risorse attentive e quindi si sottrae all’impegno per lui insostenibile.

LA DIAGNOSI
Una volta esclusi fattori eziologici organici (neurologici o sensoriali), la diagnosi della D.E. (e di un Disturbo di Apprendimento in senso lato), deve essere sia neuropsicologica che globale.
La difficoltà del bambino deve essere cioè analizzata nelle sue componenti per capire le aree di difficoltà, e, soprattutto, le strategie che usa, quelle che non usa e quelle che potrebbe usare.
La diagnosi neuropsicologica deve riguardare quindi tutte le aree di “funzionamento” del bambino:
– le sue capacità cognitive;
– le abilità visuo-motorie, prassiche e spaziali;
– la memoria;
– il linguaggio;
– l’apprendimento in senso stretto (lettura, scrittura e aritmetica);
– l’attenzione;
e deve essere effettuata con tests standardizzati.
A questo proposito l’Associazione Italiana Dislessia (A.I.D.) ha messo a punto un protocollo diagnostico di base per la valutazione dei Disturbi di Apprendimento della Lettura, Scrittura, Calcolo (vedi il sito web www.dislessia.it).
È inoltre importante considerare, da un punto di vista psicologico più generale, la personalità del bambino e come egli vive la sua difficoltà.
È quindi essenziale un collegamento tra lo psicologo e il neuropsichiatra che fanno la diagnosi, il terapista e gli insegnanti.
È opportuno che si costituisca una rete intorno al bambino e che ci sia un approccio omogeneo: da questo dipende in gran parte l’esito favorevole degli interventi.

COSA FARE IN PRESENZA DI D.E.
In presenza di una D.E. (soprattutto se il bambino è nel primo ciclo di scuola elementare) si consiglia una terapia di linguaggio o una terapia neuropsicologica.
È molto importante la precocità dell’intervento: quanto più esso è precoce, tanto più si può intervenire sulla difficoltà del bambino, cercando sia di ridurla, sia di stimolare strategie cognitive per “aggirare l’ostacolo”, prevenendone anche le pesanti conseguenze sul piano psicologico.
È altrettanto importante che l’ambiente familiare e scolastico vada incontro alle difficoltà del bambino che non si possono modificare, aiutandolo nella ricerca delle strategie di compenso e nella costruzione di un’immagine di sé non fallimentare.
È poi indispensabile un adattamento della didattica alle difficoltà di apprendimento del bambino, con l’adozione di strategie compensative o dispensative del compito (lettura silenziosa, uso di un lettore, libri “parlanti”, uso del registratore, uso del computer per la scrittura, ecc…).
Secondo un neurologo inglese, Critchley, il futuro di un bambino con D.E. è tanto migliore:
– quanto migliori sono le sue capacità cognitive;
– quanto più precoce è l’intervento;
-quanto più il bambino e il suo disturbo vengono compresi dall’ambiente (evitando aspettative eccessive o colpevolizzazioni o rassegnazione);
– quanto più adeguato è l’atteggiamento didattico;
– infine quanto maggiore è l’equilibrio psichico del bambino stesso.
Sono elementi sfavorenti, invece, il bilinguismo, i frequenti cambiamenti di classe (e di insegnante), un numero elevato di assenze da scuola, atteggiamenti iperprotettivi sul bambino che possono non permettergli di affrontare le sue difficoltà.

QUALE DISAGIO PER IL BAMBINO
Il bambino con D.E. ha quasi sempre un disagio psicologico conseguente al vissuto delle proprie difficoltà di apprendimento.
Egli, infatti, è il primo a percepire la propria difficoltà vivendola; generalmente tuttavia non sa darsi spiegazioni e tutto ciò ha ripercussioni negative sulla sua autostima e in genere sulla formazione della sua personalità.
Questo disagio può tradursi in disturbi di comportamento (fa il buffone o disturba in classe), rifiuto della scuola, inibizione, chiusura in se stesso, atteggiamenti di disinteresse da tutto ciò che può richiedere impegno, depressione o altri tratti psicopatologici.
Ancora oggi, in un bambino con D.E. spesso vengono notate proprio le difficoltà psicologiche prima delle sue difficoltà di apprendimento.
È molto importante che l’ambiente in cui un bambino con D.E. vive (la famiglia, la scuola) non neghi o fraintenda la sua difficoltà, ma lo aiuti ad affrontare la realtà: i bambini devono sentirsi capiti ed aiutati, concretamente, a casa e a scuola.

www.ospedalebambinogesu.it  –  Dott.ssa Luigia Milani – Neuropsichiatria infantile.